Sogno.
Sogno di essere a casa mia, mi alzo dal divano per andare a letto, e mi rendo conto che in effetti sono a casa dei miei. Questa casa però è enorme, c'è qualcosa che non va: non solo non è casa mia come credevo che fosse, non è nemmeno la casa dei miei genitori. Poi entro in bagno, e il bagno è in effetti uguale a quello di casa dei miei, dunque devo essermi sbagliato. D'improvviso, il bagno non è più un bagno, ma una grande stanza. Davanti a me ho mia madre e mio padre, e senza nessuna ragione legata al momento, ho una crisi di rabbia incontenibile, come quando dopo aver perduto Alessia me la prendevo con loro, perché appena dopo il suo decesso erano gli unici con cui me la potessi prendere senza contegno. Ero pieno di frustrazione, colmo di ira ingiustificata verso dio, il mondo e tutto quanto cazzo ci sta sopra, ma con amici e colleghi non potevo lasciarmi andare come la mia mente fracassata di quei giorni cercava di impormi in reazione a provocazioni reali o situazioni in cui mi giravano i coglioni per un nonnulla, perché esistono regole sociali la cui infrazione comporta rischi diversi da quelli dello sfogarsi con le persone che ti amano di più.
Urlo loro contro, ma sono colmo di rabbia e vergogna. Mi vergogno per la mia condotta, ma soprattutto mi vergogno perché ho addosso solo una t-shirt, e ho dei boxer in mano, con cui mi nascondo le pudenda. Mi sento esposto e colmo di imbarazzo. La sensazione è così forte che mi sveglio a casa mia, nella mia mansarda. Manca la corrente, non riesco ad accendere le luci, e allora capisco che sto ancora sognando.
Questa situazione ricorre spesso nei miei sogni: sono a casa, la mansarda in cui vivo ora, o a casa di Alessia, o in uno dei due appartamenti in cui ho vissuto in passato, o a casa dei miei, e una forza maligna priva di sostanza mi impedisce di accendere le luci. Gli scenari sono sempre e solo due: o sono paralizzato e non riesco nemmeno a premere il fottuto interruttore o è scattato l'automatico e io lo premo, ancora e ancora, senza alcun risultato. Ogni volta che questa situazione si presenta nei miei sogni ho una paura fottuta. È una paura soverchiante, che mi congela dalle palle fino alle orecchie, perché avverto questa forza non solo come malvagia, la sento incoercibile, ineluttabile, potente e aliena. Come ho detto, non ha sostanza, è come una nebbia nera e densa che sta sempre ai margini del visibile. Di solito, quando queste circostanze si manifestano nei miei sogni, temo talmente tanto ciò che al buio potrebbe accadermi che mi sveglio di soprassalto, ma non questa notte, questa notte il sogno continua. Esco da casa in preda al terrore, scendo le scale di corsa, ma ad un certo punto mi devo fermare. Sulle scale, è buio, buio forte, è tanto buio che se continuassi a scapicollarmi mi sfracellerei. Mi fermo, e dal poco che scorgo mi rendo conto che non sono più nel palazzo in cui vivo. Il pianerottolo è enorme. Il buio si attenua, fino a dissolversi quasi completamente, mentre le scale svaniscono e il pianerottolo diventa una stanza immensa con decorate sulle pareti barocche case posticce. Scorgo mia sorella, a diversi metri da me, ma solo per pochi secondi. A distogliermi da mia sorella è il freddo che avverto, che sale dal suolo. Abbasso lo sguardo, il pavimento muta, si congela, divenendo grande quanto l'area di pattinaggio all'interno del Palaghiaccio di Milano. Ai piedi mi ritrovo dei pattini da ghiaccio, senza averli indossati. Io non ho mai pattinato in vita mia, né su ruote né su ghiaccio, ma devo essermene dimenticato. E allora comincio a pattinare, una gamba via l'altra, pattino con foga mista a panico, le ombre nere che erano in casa mia stanno arrivando. Giungo davanti alle porte che si stagliano nel punto più lontano della scenografia di case posticce che mi circonda. Mi fermo dinnanzi ad una di esse, l'unica che non è un riporto fasullo in foggia di porta nell'architettura scenografata che mi circonda. Vicino come sono al fondale di queste case che non sono case ma solo una loro rappresentazione su un telo dipinto applicato su mura che saranno alte quindici metri mi stupisco della loro perfezione. Noto elementi di tridimensionalità che non sono reali ma disegnati e mi sento colmo di meraviglia. Varco la porta che è una vera porta, e mi trovo nella sala da pranzo di un appartamento. La tavola è apparecchiata, e come se fossi un convitato e sapessi qual è il mio posto, mi seggo vicino ad uno dei capitavola. Mangio con accanto il Signor Trevisio, vicino di casa della mia famiglia quando ero bambino, defunto circa 35 anni or sono. La percezione del reale muta, quando abbandoniamo l'infanzia per entrare nell'età adulta, ma per piccolo che fossi quando il Signor Trevisio era parte della mia vita, essendo vicino di pianerottolo e nonno di un mio amico di allora, Luca, lo percepivo come una brava e dignitosa persona. Lui e sua moglie erano in pensione, e lui era talmente sovrappeso che trascorreva la sua vita diurna in posizione semi-sdraiata su una poltrona, pressoché impossibilitato a muoversi. Aveva una biblioteca notevole, e grazie a lui, a circa a 11 anni, potei leggere dei libri di raccolte di racconti horror che rammento tuttora. Forse per questi motivi, nel mio sogno, la sua presenza è calda e benevola. Mangio, con appetito: nel mio piatto c'è una minestra buonissima. Davanti a me c'è un altro sognatore, che mi distrae dal Signor Trevisio. Stava sognando un altro sogno del tutto slegato dal mio, ma anche lui è finito nella stessa sala da pranzo in cui mi trovo ora io. Le mie paure sono svanite. Parliamo amichevolmente, ma della nostra conversazione non mi resta nulla. Il sognatore svanisce e viene sostituito da un Sogno vivente. Ha foggia umana, ma non è un essere umano. Ha un gatto per amico, che tiene in braccio. Anche il gatto non è un gatto, è un Sogno travestito da gatto. Il Sogno in foggia di uomo ed il Sogno in foggia di gatto lasciano la tavola, ed inscenano uno spettacolo, su tanto di palcoscenico. Lo show mi diverte, è pieno di trucchi di prestidigitazione, simbolismi e trasmutazioni alchemiche. Lo spettacolo termina quando due tende di velluto rosso si chiudono sul palcoscenico. Sono di nuovo a casa mia. Esco e sono in strada, niente scale, niente ascensori: semplicemente, apro la porta e sono in strada. C'è una gran festa. Una moto nera con cromature abbaglianti guidata da una cameriera sexy di pelle vestita viene da lei parcheggiata in verticale con un movimento dalla coreografia perfetta su un'enorme colonna corinzia. La colonna è incongrua: non sostiene alcunché. Conosco una donna. È molto attraente. La bacio. Pensieri di sesso me lo fanno rizzare. Voglio scoparmela lì dove siamo. Lei ha 4 figli, ma mi vuole. Non mi dice il suo nome ma quello di suo marito, Mario Fusso. Il suo alito caldo unito alla consapevolezza che mi sta dando un indizio perché possa trovarla nel mondo della veglia mi fa indurire talmente il cazzo che glielo pianterei nel culo seduta stante, ma ho capito che lei non mi si concederebbe perché teme di essere vista e riconosciuta. Arriva un'altra cameriera di pelle vestita, anch'essa su una motocicletta nera e cromata di cromature abbaglianti come quella della sua collega, e, anche lei, con perizia acrobatica, la parcheggia sulla colonna corinzia, anche lei ignorando la legge di gravità.
Mi sveglio, ma, di nuovo, non sono sveglio, a quanto pare: manca sempre la luce. Ho di nuovo terrore, l'elemento ricorrente dei miei sogni si è ripresentato più virulento che mai, penso di stare per essere aggredito a morte, e, questa volta, finalmente, mi sveglio davvero.
Apro gli occhi e mi dico: "O la mia sanità mentale se ne è andata in vacca o i sogni sono davvero una porta su un'altra dimensione"...
Ora che sono passati giorni da questo cazzo di sogno disturbante e la mia mente è fredda, penso più la prima eventualità, per quanto possa sperare nella seconda.
Fin.
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