Secondo Interludio
Heroes
Galleggiamo
Torpidi e suonati
Inutilmente fieri
Imbevuti di cieca boria
Soldati di una guerra inutile
Siamo dei falsi eroi.
- Cap.4
- Delirium - Deliria - Delirii - Deliriorum
Ritornò ad uno stato di semi-lucidità dopo diversi minuti, la maggior parte dei quali trascorsi in preda ad uno stupore catatonico.
Che cazzo era successo?
Quella matta della sua cameriera gli aveva iniettato dell’Expergiscor?
Perché, poi?
Cosa cazzo le potesse essere frullato per la testa e perché non riusciva davvero a capire.
Era successo davvero?
E lui l’aveva davvero stesa con una testata degna di una rissa?
Certo era che il corpo inerte della donnina delle pulizie che giaceva tra i suoi piedi costituiva un’evidente prova a sostegno della tesi in questione.
La toccò con la punta del piede destro.
C’era realmente? O stava delirando?
Per rassicurarsi la toccò ancora.
Non convinto, le tirò un calcio con la pianta del piede sul fondoschiena.
La donna non reagì, ma era troppo solida per essere un sogno.
Era lì davvero, per la puttana.
E, adesso, che poteva fare?
Era possibile che la testata ricevuta l’avesse fatta svenire di brutto; quindi, in primo luogo, avrebbe dovuto verificarne lo stato di salute (per meglio dire, visto che il calcio che le aveva appioppato, considerevolmente forte, non aveva prodotto reazioni di sorta, doveva appurare se era in uno stato diverso dal coma). Respirava, ma era davvero inerte. Confusamente ricordò di avere letto da qualche parte che un colpo ben dato al naso poteva perfino uccidere: agendo dal basso verso l’alto, si poteva fare sì che le schegge del setto nasale finissero nel cervello della vittima, provocandone la morte. Ma era roba da ninjia. E lui, a differenza di un pazzoide che viveva nel suo condominio che si proclamava tale: no, non era affatto un ninjia del cazzo. La testata gliela aveva data, sì, ma di piatto. Niente colpi da secret agent: una banale testata non letale.
Le si avvicinò imbestialito, propenso, senza rendersene conto a fondo, qualora fosse stata viva, più a darle l’eventuale colpo di grazia che ad aiutarla.
Invece di auscultarne il battito cardiaco le dette un’altra pedata, ancora più forte della precedente. La donna guaì a bassa voce e, sebbene gli avesse causato un cazzo di danno enorme, fu grato di saperla viva.
Ciò malgrado, prima di soccorrerla, decise che si sarebbe dovuto fare un bella spike, quantomeno per riacquistare la lucidità necessaria ad affrontare i paramedici dell’ambulanza che avrebbe dovuto chiamare.
Si ricordò che aveva lasciato la sinto avanzatagli sul tavolo di cristallo al centro della stanza adibita ad home-theatre, perciò vi si diresse fulmineo.
Mentre si stava avvicinando al tavolo si rese conto che il tavolo non c’era più.
-“Che cazzo...”, borbottò.
Fu l’odore di vomito a riportargli alla mente in modo definitivo quel che aveva combinato: era precipitato sul tavolo di cristallo, disintegrandolo, quindi la sintoeroina che c’era appoggiata sopra doveva avere preso il volo assieme a tutto quanto si trovasse sulla sua superficie!
Imprecò con un'intensità tale da inventare nuovi improperi per un minuto abbondante, prese a calci selvaggiamente la propria poltrona preferita e si accorse, dopo il decimo calcio alla sua incolpevole compagna di lorde sulla testa, di stare piangendo.
Merda, stava avendo un’altra crisi nervosa da bambinetta del cazzo.
Dovette mettersi in posizione yoga, respirare a fondo per un paio di minuti e, dopo avere fatto una sorta di vuoto zen attorno alla sua coscienza consapevole riuscì a chetarsi un po'. In ogni caso, maledisse sé stesso per avere lasciato una busta contenente un grammo di sintoeroina aperta dove sarebbe stato sufficiente un alito di vento a farla cascare per terra.
Che fare, dunque?
Strappare gli occhi alla cameriera ed andare a prelevare col suo Securmat?
Impensabile, visto che i suoi familiari erano a conoscenza del fatto che fosse a casa sua.
Decise così, a malincuore, che anzitutto, avrebbe dovuto soccorrerla e togliersela in qualche modo da in mezzo alle palle.
Una volta liberatosene avrebbe escogitato qualche espediente per tirare su i soldi necessari ad acquistare almeno cinque grammi di medicina (cinquemila euri, pensò con orrore e costernazione che gli servivano almeno cinquemila euri).
“ ’Sto cazzo”, pensò, “che cazzo di casino di merda”.
Si avvicinò alla donna in silenzio, le sollevò la testa e la schiaffeggiò, leggermente prima e con maggior forza poi, e, infine, vista l’assenza di reazioni da parte sua, cominciò a scuoterla e ad urlare: “Signora, che le è successo? Come ha fatto a cadere a quel modo?!”. Non poté fare a meno di rendersi conto che quanto appena detto gli era uscito dalla bocca senza alcuna convinzione. Gli era persino tremata la voce sull'ultima parte di domanda.
La donna, di nuovo, non reagì.
Si concentrò: era meglio evitare di fare cazzate inutili.
A ben guardare, la prima cosa da fare, per evitare di peggiorare la situazione, era infilarsi qualcosa: era nudo e lurido, e solo nell'attimo in cui si rese conto della sua nudità si capacitò di quanto incongrua fosse la situazione e quanto ancora più incongrua sarebbe parsa se lei si fosse svegliata mentre lui, nudo, la scuoteva come una bambola di pezza. Inoltre, l’Expergiscor aveva disintegrato ogni traccia di sostanza avesse avuto in corpo, e lui sapeva bene che in quello stato diveniva iper-sensibile al contatto. Chi poteva dirlo? Se gli si fosse rizzato, magari la vista di un giovine pene eretto avrebbe fatto collassare di nuovo la sua cameriera.
Prese il paio di boxer in cotone auto-pulente che pendevano dalla spalliera di una sedia e li indossò (vacca se si ricordava come diamine fossero finiti lì).
Sapeva che molto probabilmente Elisabetta- Betty-Bettina ricordasse alla perfezione quanto fosse successo, tuttavia, sperava che almeno gli si sarebbe potuto evitare una denuncia per lesioni personali ed un possibile arresto.
Ragionò che, volendo, avrebbe sempre potuto persuaderla a risolvere tutto in privato. Nell’ipotesi peggiore, si disse che, piuttosto che farsi una carenza in caserma, l’avrebbe scaraventata giù per le scale. “Non che questa sia una soluzione furba...”, pensò. “Ma perché dovrebbero sospettare subito di me? Potrebbero benissimo pensare ad un incidente...”, soggiunse a sé stesso, dando davvero credito a quel delirante percorso di pensiero in cui si era andato ad infilare. A distoglierlo fu la sua capacità di autoconservazione, non la sua capacità logica (di cui di regola non difettava). Qualcosa in quel ragionamento non filava. Avrebbe dovuto romperle il collo a freddo e poi buttarla giù per le scale, e, per la puttana, non era una bella prospettiva.
Si chinò, la sollevò con relativa delicatezza, e la schiaffeggiò leggermente: finalmente, poco a poco, la donna fece mostra di stare risvegliandosi.
-“Mmmhhh... Che mi è successo? Ricordo che stavamo discutendo, e poi...”, disse biascicando.
-“E poi è scivolata all’improvviso! Comunque, la devo ringraziare... Mi ha salvato la vita!”, disse Asmodeo con un sorriso che sperava essere genuino, ma che, di fatto, risultò orrendamente forzato.
-“Le ho salvato la vita? E come?”, rispose poco convinta lei. Aveva sussurrato, e lo stava guardando con un’aria un po’ spersa.
Suo malgrado, si dispiacque di averla colpita. Non era suo tipico, ma provò uno strano senso di colpa.
-“Ero quasi morto, quando lei è arrivata a casa ‘stamattina, si ricorda?”, rispose Asmodeo, nel frattempo toccandosi le palle senza volere con la mano destra in un gesto che, sarebbe voluto essere uno sfioro benaugurante, ma che, a causa dell’incapacità di controllare i muscoli causatagli dall’Expergiscor, sembrò l’atto di un maniaco sessuale. Elisabetta parve non farci un granché caso: era ancora parecchio torpida.
-“Oddìo, è vero! Era in overdose!”, urlò, spalancando gli occhi cerchiati dall'ematoma che già andava diffondendosi nel contorno occhi, e che, sempre più, la faceva somigliare ad un orsetto lavatore.
-“Ehm, diciamo che la definizione tecnica è più o meno quella. In ogni caso, dando una prova di freddezza mica da ridere, mi ha salvato, iniettandomi dell’Expergiscor... Il problema ora è che lei ha bisogno di un medico...E' caduta scivolando su quella coperta, vede? Ed ha sbattuto col viso contro lo stipite della porta del bagno”, concluse Asmodeo.
-“Ora chiamo un'ambulanza”, disse, in realtà per nulla intenzionato a dare seguito alla pantomima del cazzo in cui stava invischiandosi.
Forse per questo motivo, forse per l’astinenza che cominciava a picchiare o forse per tutti e due, finì con l’avvicinarsi al telefono video muovendosi a scatti, come un pupazzo a molla che va esaurendo la sua carica. Man mano che si avvicinava al telefono, si scoprì disperato a pensare: “E ora? Che cazzo faccio? L’ammazzo?”.
Fu proprio mentre accendeva tremando il terminale del videofono, che la donna, ormai in apparenza riavutasi, gli disse: “Senta, Signor Asmodeo, per una botta sul naso… Forse è il caso di lasciare perdere... Posso cavarmela benissimo da sola”.
Asmodeo ragionò, e si rese conto che per lei il dolore dovesse essere assai intenso, ma non disse nulla. Non che questo gli impedisse di sentirsi sbalordito e confuso: in primo luogo, perché la cameriera doveva avere rimosso quanto era avvenuto (non capiva come), e, in secondo luogo, perché per quanto sapesse che la sua cameriera fosse una di quelle donne iper-attive, sempre assorbite dalla voglia di fare, di lavorare, di parlare, lo stupore di vederla in piedi e non ripiegata su di sé a piangere gli provocava uno sconcertato stupore.
Avrebbe dovuto provare sollievo, ma non ci riusciva.
Pensò che, se mai una cosa del genere fosse capitata a lui, avrebbe voluto essere non solo soccorso, ma accudito, coccolato, compatito e cazzo, curato con qualche... tonnellata di antidolorifici.
Se c’era una cosa che odiava, quella era il dolore fisico, in ogni sua forma e genere, da quello più lieve al più intenso.
-“Ne è sicura?”, finalmente disse Asmodeo, “Se vuole l’accompagno al pronto soccorso...”. Non fece in tempo a finire la frase che già s’era reso conto di avere detto un’altra gigantesca stronzata. I morsi dell’astinenza stavano iniziando a dilaniargli lo stomaco, quindi, di lì a cinque, massimo dieci minuti, sarebbe finito a vomitare e a scagazzare su un cesso. O tutte e due le cose contemporaneamente. Quindi non sarebbe potuto andare da nessuna parte.
La cameriera parve leggergli nel pensiero e, infatti, gli rispose: “Lasci perdere... Lei ha altri problemi da risolvere, mi sembra di capire”.
Asmodeo la guardò, muto e imperturbabile, e pensò: “Non ne hai nemmeno un’idea, imbecille che non sei altro”.
-“Le dispiace se le metto in ordine l’appartamento domani?”, disse concludendo Elisabetta, e, mentre così diceva, si diresse, caracollante, verso la porta dell’ingresso.
-“E' meglio che prima si riprenda, mi creda. Le dò una settimana di ferie. Se l’è proprio meritata. Venga, che l’accompagno alla porta...”, concluse Asmodeo, sconvolto fisicamente ma, tutto sommato, sollevato dal timore di doverla brutalizzare.
Fingendo un entusiasmo che non provava per niente ed ancora sporco di vomito e merda, iniziò a condurre la fonte delle sue attuali disgrazie verso l’uscita dell’appartamento.
La quale, dal canto suo, era in preda ad una paura irrazionale e insopprimibile.
Da qualche minuto stava guardando Asmodeo in tralice, evitandone accuratamente gli occhi. Più che di paura irrazionale, si rese conto, si sarebbe potuto parlare di una forma abissale, titanica e quasi incontrollabile di timor panico. Era strano, e non riusciva ad accettarlo, ma, da quando si era svegliata, aveva recepito che l'unico essere umano in quella appartamento era lei. Anzitutto, il particolare più aberrante: i contorni della sua figura, e del suo volto in specie, sembrava che vibrassero. E, poi, c’era qualcos'altro di intangibile, eppure, al contempo, tremendamente presente (quasi palpabile, avrebbe detto): Asmodeo emanava ondate di malignità pura. Inconsapevole, omnidirezionale (non diretta verso di lei), ma pura.
Se avesse avuto maggiore proprietà di linguaggio e maggiore profondità di pensiero, avrebbe capito dov'era il problema: l’aura della cosa che aveva davanti era mutata.
Ecco qual era il punto, l’aura di Asmodeo era cambiata rendendolo una non persona.
Come tutto ciò fosse possibile, non avrebbe saputo dire (le era venuta una paura oscena e difficilissima da gestire, quello poteva dire, e sentiva che, se non fosse uscita da quel maledetto appartamento subito sarebbe impazzita senza possibilità di recupero).
L’ultima occhiata che le aveva lanciato, aveva notato, in particolare...
Lo sguardo che Asmodeo le aveva scoccato mentre si accingeva ad accompagnarla verso la porta, una caricatura deforme e demoniaca delle sue normali espressioni, le aveva provocato un tuffo al cuore tanto violento e inaspettato che, per un attimo, aveva temuto di essere uccisa da un infarto fulminante. L’Expergiscor doveva indurre contrazioni facciali involontarie, lo aveva capito di fronte alla decina di tic e smorfie che Asmodeo aveva avuto in sua presenza in quei pochi minuti, ma il punto era che...
Il punto era che tutto in lui sembrava essere cambiato: l’atmosfera che aveva attorno era divenuta greve e cupa; i suoi lineamenti si erano modificati, facendolo sembrare una parodia di angelo caduto, i capelli gli si erano rizzati, dando l’impressione che in corpo gli circolasse corrente a 220 volts e, perfino, si capacitò con orrore crescente, il suo odore, che, malgrado tutti i suoi difetti di regola era un buon odore, era mutato. Non era un cattivo odore, ma al centro di quell'odore c'era un odore che, come ex infermiera, conosceva e che non le era mai piaciuto: quello del sangue. Ma non l'odore del sangue di un ferito grave: l'odore di un fiume di sangue, no, peggio, di un mare di sangue, un odore così soverchiante e dolciastro da essere stomachevole.
Aveva attorno a sé un alone di malvagità ultra-umana e aveva preso ad emanare l'odore di un mare di sangue, avrebbe detto, ma, lo capiva (lo sperava, lo pregava), la sua era solo stupida suggestione indotta dal trauma della caduta.
Cercò di razionalizzare, ma non ci riuscì minimamente e, nei pochi secondi che intercorsero mentre dalla camera da letto passavano alla sala con la tv e da lì all’ingresso, il suo stato emotivo peggiorò e arrivò a vedere la di lui bocca che si spalancava in un pozzo di orrore nero e avorio, per poi...
Aggredirla? Malmenarla?
No, non bastava: per poi prenderle la faccia a morsi. Se lo vedeva, Asmodeo, trasformatosi ormai in una bestia satanica senza cervello, a mangiarle la faccia e succhiargli in cervello dagli occhi...
(SchluuupSchhluuupSblorsh, avrebbe fatto)
...tutto, fino all'ultimo grammo.
La sua fantasia non era mai stata particolarmente fervida, ma quelle immagini si erano orrendamente elevate dallo stato di semplice flash mentale a quello di allucinazione visiva e sonora.
E, come se non fosse bastato tutto quell'orrore, le... Le...
Le aveva letto nel pensiero.
Non ricordava quasi nulla, ma quello sì: prima che svenisse le aveva letto nel pensiero.
E, ci avrebbe giurato, i suoi pensieri si erano fatti più profondi e astratti, perché era come se una mente esterna, assai più vasta della sua, elaborasse inconsapevolmente col di lei cervello idee, immagini e concetti.
Ad esempio, come faceva a conoscere il significato di “aura”? Era la prima volta che sentiva quel termine, eppure sapeva benissimo cosa significasse.
E quelle parole onomatopeiche?
Non aveva mai sentito la parola "aura", né, tanto meno, si era mai espressa o aveva mai pensato come se fosse stata la protagonista di un fumetto.
Asmodeo aveva invece una biblioteca di migliaia di libri, e una buona metà erano fumetti americani, canadesi e giapponesi.
Ebbe un’intuizione pazzesca: Asmodeo le stava inviando mentalmente e, di certo, in modo non conscio, le visioni e i pensieri che lui stava avendo.
Quando se ne rese conto appieno quasi svenne un’altra volta.
Eppure, contrariamente ai suoi timori, e a quanto secondo le sue deduzioni lui stesso stava pensando (“Pazzo schifoso maiale psicopatico”, si disse Elisabetta), Asmodeo non fece né disse nulla che potesse dare l'impressione che volesse nuocerle.
Arrivarono alla porta, e, finalmente, la congedò, dicendole che non le dava solo una settimana: fino a che non fosse guarita poteva ritenersi in vacanza.
-“Grazie per il maiale”, disse con tono svagato Asmodeo mentre chiudeva la porta.
“Maiale?! Ma io non gli ho portato del maiale!”, pensò, e, poi, con orrore, comprese l’asserzione e il suo significato implicito (e, su tutto, capì, che, di nuovo, le era entrato dentro).
Lo sbatter della porta fu per lei come lo sparo di avvio per una gara di centometristi: scese le scale con le ali ai piedi, e, sempre correndo, si allontanò dal palazzo da cui era appena uscita.
Asmodeo non l’avrebbe mai più rivista. Lo sapeva con certezza e se ne compiacque: almeno non ne sarebbe derivata una richiesta danni che non avrebbe potuto ne' voluto gestire.
Pochi secondi dopo l'uscita di scena di Elisabetta, si avviò verso la camera da letto, e si rese conto di essere in stato di shock: tremava e aveva dei flash violenti e multicolore davanti agli occhi.
Si sedette e svuotò i polmoni, per poi riempirli a fondo, una, due, dieci volte. La strategia del vuoto zen funzionava quasi sempre: in particolare, grazie a quella piccola seduta di training autogeno che si era appena concesso, riuscì a mettere assieme i cocci più grossi in cui si era spappolata la sua mente.
Nella situazione in cui si trovava non aveva, di suo, alcuna possibilità di tirarsi fuori dalla merda.
Trovare qualcuno dei suoi per nulla numerosi amici in condizione di temporanea eccedenza monetaria o farsi dare la medicina a credito: quelle erano le uniche possibilità che aveva di uscirne.
Ma, per farsi dare la sostanza a credito da un qualsiasi pusher, doveva scendere da casa, e la prospettiva gli apparve ardua quanto lo scalare l'Everest in mutande.
Purtroppo (o per fortuna, dipendeva dai punti di vista, ragionò), le poche persone che reputava amiche avevano il suo stesso tipo di problema, ovvero assumevano droghe pesanti con regolarità.
Decise che avrebbe chiamato il meno infognato di tutti, e cioè "l'uomo dal nome impossibile", come spesso lui Alex scherzosamente definivano Arnolfo, il quale di rado veniva a trovarsi sprovvisto nel contempo di denaro e di droga.
Pregò che fosse sveglio, perché, se fosse stato addormentato, non avrebbe di certo risposto al videotelefono: aveva un sonno maledettamente pesante. Ricordò quella serata in cui si gonfiò di superalcolici, sinto, hashish e marijuana, bombandosi talmente tanto che finì con l’essere ricoverato in ospedale in stato soporoso. La prima volta che sentì quell'espressione in vita sua fu quando lo dimisero: nemmeno sapeva che si potesse finire in "stato soporoso". Dapprima, quando non riuscirono a svegliarlo, la cosa era parsa una cosa da ridere, un buffo fenomeno, e tutti coloro che erano passati da casa sua ne avevano usato faccia e fronte come una lavagnetta (alcuni facendoci sopra persino delle partite di tris), ma, dopo ventiquattro ore di sonno continuo, i suoi coinquilini e perfino lui avevano cominciato a preoccuparsi. Dopo trentasei ore, l’avevano fatto ricoverare. Dopo settantadue ore s’era svegliato da se', come se niente mai fosse accaduto.
Ragionò che, in effetti, gli scenari alternativi non erano da meglio.
L’eventualità di chiamare Jesus, Kris o Alex era da prendere in considerazione solo se fosse arrivato alla frutta, poiché ognuno di loro avrebbe pensato prima al proprio culo, come era giusto e inevitabile che fosse. Arnie era l'unico non ancora totalmente perso, pertanto l'unico che forse lo avrebbe potuto aiutare.
Pensò a Karelle, ma trovò l'opzione ridicola.
-“Allora”, si disse, “Karelle è da scartare a priori, soldi in banca non ne ho, amici in grana oltre ad Arnie nemmeno... Cazzo faccio?”
In sostanza, non rimaneva che lui.
Preparandosi ad ingoiare bocconi che sarebbero di certo stati amari, chiamò "Arnie il Pazzo", come ancora più spesso che "L'uomo dal nome impossibile" lui e Alex lo chiamavano.
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