- Cap. 3
- Sogni
Aveva sempre avuto una gran passione per il dormire, poiché considerava il sonno come una specie di morte a tempo, alle volte così profondo da essere una morte saporosa e languida, una specie di accogliente pozzo nero nella quale il dormiente poteva annichilirsi e, poi, tornare nel mondo degli svegli, ovvero, a tenere buona la metafora, nel mondo dei vivi.
Questa volta c’era però qualcosa di eccessivamente torpido a disturbarlo.
Ricordò, a livello inconscio, di avere corso, incurante ed esasperato, sul limitare di un baratro profondo ed oscuro.
Ecco: se già in essa si inseriva un sogno o il ricordo di un sogno, la petite mort non era più tale.
Ricordò, questa volta consapevolmente: aveva corso, su un sentiero che, lo aveva visto senza poterci fare un cazzo, andava facendosi sempre più stretto e, lo aveva saputo, se avesse continuato a correre, sarebbe caduto; eppure, non era riuscito a fermarsi, e, quindi, era precipitato, e, cosa strana, non era morto. Si era fatto un cazzo di male ad una mano. Nel sogno cadeva da un'altezza di 12 milioni di chilometri e non moriva; in compenso, si faceva male alla mano sinistra, perché aveva interrotto la caduta col solo braccio che era riuscito ad allungare.
Il male permaneva, insistente, persistente, fastidioso e reale anche in quell'istante. E, dato che in quell'istante era sveglio, si rese conto, che, forse, era caduto per davvero.
Non riusciva a ricordare se la caduta fosse avvenuta in sogno mentre finiva a terra, addormentato, anche nella realtà, o se fosse caduto a causa di un'allucinazione indotta da quello strano stato in cui ci si trova prima dell'addormentamento totale, in cui l'organismo umano diviene talvolta vittima di spasmi, contrazioni e sussulti involontari (in breve, nello stato ipnagogico, che tanto stava confondendolo in quel periodo, ma che prima dell'addormentamento era fisiologico).
Ma, d’altra parte, stava ancora dormicchiando, e sognando, leggermente, e, come aveva potuto capire a sue spese, se c’era una situazione in cui per lui scindere la realtà dal sogno era difficile, quella era proprio il dormiveglia.
Forse realtà e dimensione onirica si erano compenetrate, e, forse, era caduto soltanto in sogno. Il dolore era riuscito a varcare i confini tra il Regno di Morfeo e la Realtà, per chissà che cazzo di congiura cosmica.
Si addormentò ancora, e sognò una grassona che gli faceva un pompino con foga forsennata. Il sogno era quanto mai confuso, ma la sensazione della di lei bocca era assurdamente vera.
D’improvviso il suo comatoso sognare mutò in uno stato di coscienza nebbioso. Senza volerlo, e, in apparenza, senza una ragione conscia, dal momento che si sentiva perso in una landa di confine, riuscì a rammentare cosa gli era davvero accaduto prima di svenire.
Ricordò di essere in piedi di fronte alla finestra della sala home-theatre con il suo fido attrezzo piantato nel braccio, quando tutto aveva preso a vorticare furiosamente ed il suo respiro si era trasformato in un orrendo gorgogliare. Il suono raspante che aveva emesso era stato così strano che, poco prima di rovinare sul pavimento, aveva pensato: “Mi sono trasformato in uno schifoso marziano”.
Come altrimenti si sarebbe potuto spiegare quell'osceno risucchio? Ricordava di avere sognato quel suono mentre leggeva l'imprescindibile "La guerra dei mondi", di H. G. Wells. Era il suono che facevano i marziani mentre si bevevano i terrestri. Non poteva esservi altra spiegazione che quella di prendere atto di essere diventato uno schifoso mostro alieno, un marziano con annesso tripode e proboscide da ficcare nei cervelli delle sue vittime per bersele, si era detto, perché quel verso non aveva nulla di umano. Malgrado tutto, quel pensiero aveva contribuito a rendere più dolce il suo capitombolare: mentre cadeva all'indietro sulla propria poltrona preferita, dandosi così l'abbrivo per fare una verticale rovescia e finire come il proietto di un obice sul tavolo di cristallo al centro della stanza, stava ridendo come un imbecille.
Era in quel frangente che doveva essersi procurato una contrattura al polso, per quanto non ricordasse nulla.
Dal volo carpiato e al conseguente schianto disastroso che ne era derivato fino a quel momento, ovvero da che era finito in coma alla consapevolezza, dovevano essere trascorse parecchie ore.
Sapeva di essere andato in overdose, ma, per quanto si sforzasse, faticava a ricordare cosa fosse accaduto.
Guardò di fronte a sé e vide un mare di schegge di cristallo, sulle quali le luci dell’alba stavano producendo curiosi ed insoliti arabeschi. Fu la sensazione d’umido sotto il viso a fargli ritornare definitivamente alla mente quanto era accaduto. Pregò che non fosse sangue, perché l’idea di chiamare un'ambulanza e quindi auto-denunciarsi lo spaventava quasi quanto il carcere.
In effetti, poco dopo l’introduzione della sintoeroina sul mercato, il consumo della stessa era stato dichiarato illegale: essere scoperti a farne uso implicava l'obbligo di sottoporsi ad una terapia di disintossicazione in un Centro di Recupero Sociale. Chi non fosse stato in grado di sopportare il costo della terapia non era però abbandonato a sé stesso: doveva solo lavorare nelle comunità di risanamento coattivo il numero di mesi - quando non di anni - necessario a rifondere lo Stato delle spese sostenute per il proprio reinserimento come membro attivo e partecipe della collettività sociale. Riuscì a toccarsi il volto e, per quanto non si scoprì ferito, rimase piuttosto schifato nel constatare d’avere una pozza di bava tanto collosa quanto filamentosa sotto la faccia.
Provò ad alzarsi, ma il tentativo fu inutile: era a pezzi, intronato, stravolto e debole come mai si era sentito in vita sua.
Deciseallora che avrebbe dormito sul pavimento.
Prima di addormentarsi non ebbe il coraggio di verificare se si era procurato delle lesioni gravi, quindi cadde in un sonno agitato e tormentoso.
Si trovò a camminare in un campo di grano dopo il raccolto, sotto un cielo plumbeo e dall'aspetto carico di presagi funesti. Come davvero accadeva, diverse pannocchie erano rimaste al suolo, il che gli fece tornare alla mente un pomeriggio della propria infanzia, trascorso assieme ai genitori a raccogliere da terra quanto un provvido ed inconsapevole agricoltore aveva dimenticato al suolo. Quel breve momento di conforto fu soppiantato da un senso profondo d'incombenza, quando vide, in mezzo al campo, un traliccio da vite troppo alto per adempiere al suo scopo. Appoggiato al traliccio c’era un grezzo scalone di legno e, per quanto non ci si volesse nemmeno avvicinare, cominciò ad arrampicarsi su di esso. I sogni lucidi, ovvero quei sogni in cui il dormiente riesce a controllare scientemente la trama degli eventi, gli erano sempre stati del tutto estranei; eppure, provò un breve momento di consapevolezza quando si maledisse per aver compiuto un’azione verso la quale provava un terrore istintivo. Arrivato in cima allo scalone la sensazione di stare per essere annientato (non c'era altra espressione che rendesse altrettanto l'idea), lo sconvolse con una tale impeto che si orinò nei pantaloni.
Si svegliò domandandosi se si fosse pisciato addosso davvero e, quando si rese conto di essere in una pozzanghera d’orina, si mise a piangere con disperazione, singhiozzando come un poppante, senza riuscire a fermarsi. La sua dignità lo tormentava: non riusciva ad accettare il fatto di aver perduto il controllo a quel modo. Quella costatazione ebbe come risultato quello di farlo sentire ancora più indegno: allora il pianto divenne un latrato, e gli parve che il cuore gli dovesse implodere in petto.
Cercò d’alzarsi e questa volta ci riuscì, anche se non appena fu in piedi lo investì un tremendo senso di nausea.
Fece un paio di passi nella direzione sbagliata, verso la finestra, la aprì e decise arieggiare la stanza, dette di stomaco, cadde, si alzò, si diresse verso il bagno, di nuovo la nausea lo sopraffece, cercò di contenersi tappandosi la bocca con entrambe le mani, senza successo, cadde, in bagno, raggiunse il cesso e vomitò ancora - senza nemmeno rendersene conto.
Ciò malgrado, riuscì a trascinarsi fuori dal bagno e a spogliarsi. Nudo e tremante si diresse verso la stanza da letto, sperando che la nausea smettesse di assediarlo e che il suo straziato organismo gli permettesse di potersi un'altra volta abbandonare tra le braccia di Morfeo. Il sonno comatoso della "piccola morte" sarebbe stato meglio, ma sapeva che, quando era così distrutto dagli esiti di un'assunzione plurima, degli assurdi sogni avrebbero fatto capolino nella sua mente non appena si fosse addormentato. Ma anche il più assurdo dei sogni sarebbe stato meglio che essere sveglio, vigile e cosciente nel disastrato stato fisico e di prostrazione emotiva in cui si trovava, pertanto, si disse, che Morfeo avesse fatto del suo peggio.
Era tanto stremato che cadde addormentato ancor prima di sdraiarsi.
Di nuovo, sognò. E Morfeo fece in effetti del suo peggio.
Questa volta era sotto a un vulcano, in uno stanzone scavato grezzamente nella roccia lavica. Attorno a sé aveva numerosi individui, che, a prima vista, si comportavano come se stessero osservando un'opera d'arte particolarmente interessante. Non riusciva a capire che cosa guardassero, poiché era tornato bambino ed era troppo basso per vedere oltre le persone che aveva davanti. Che strano, pensò: il sogno era cominciato che lui era adulto e il suo divenire bambino gli era parsa la cosa più naturale del mondo. Quando riuscì infine a vedere quanto quelle persone dall'apparenza normale rimiravano beate ebbe un’esplosione d’ilarità, perché queste erano assorte come angeli in contemplazione di Dio di fronte ad un busto di lava raffigurante Pinocchio.
Le risa attirarono l'attenzione degli astanti su di sé, e, da quel momento, il sogno assunse una tonalità oscura: lo stavano guardando, e... con odio?
Non sapeva, non capiva, aveva solo una paura fottuta.
“Forse no”, pensò, “forse non è odio: forse è l’unico sguardo di cui questi esseri sono capaci”, ma la constatazione non gli fu di conforto.
Quando si rese conto che molti, tra quelle oscene parodie di Serafini, Cherubini e Troni, si stavano masturbando, si eccitò e spaventò allo stesso tempo. L’ambiente era saturo di una sensualità bollente. Il terrore soverchiava però le altre sensazioni, perché c’era qualcosa di insano nello sguardi delle creature che lo circondavano e nel loro continuo e martellante salmodiare.
Capì (fu come un’epifanìa) di essere sceso all’Inferno quando vide che il busto di Pinocchio sorrideva con malvagia vacuità, mostrando delle zanne che parevano di quarzo. Il sorriso fu accompagnato da un rumore vetroso e scricchiolante. Quella cosa non aveva occhi, o, per meglio dire, al posto degli occhi aveva delle voragini nere.
“Inghiottititrici di anime, quelle voragini sono inghiottititrici di anime”, pensò in preda ad un terrore metafisico.
E, come spesso in sogno accade, arrivò, senza sapere come, alla verità nascosta nel sogno: quel busto era il Male, non un prodotto della sua mente drogata e di alienato, non una sua rappresentazione, era una materializzazione del Male che aveva attinto al suo inconscio per terrificarlo nel più preciso dei modi.
Cercò di scappare, ma il suo tentativo si rivelò inutile: la sala in cui si trovava era priva di uscite. All'inizio del sogno aveva colto delle arcate che erano varchi, ma ora non c'erano più.
Si svegliò, quando al senso di claustrofobia s’aggiunse la consapevolezza di essere osservato non da qualcuno, non dalla maggior parte, ma da tutti i presenti, i quali avevano perso del tutto l’iniziale apparente normalità fisica e si erano trasformati in cadaveri d’uomini e donne senz’occhi. Muti e immobili parevano contemplarlo, senza odio né astio, ma, avrebbe capito pensandoci giorni dopo, con un senso di aspettativa.
Nello stato d’istupidimento in cui si trovava non riuscì a fare null'altro che dirsi: “Non è quindi solo Dio che adora l’idea d’essere circondato da intere schiere d’angeli costretti a rincoglionirsi nella beata e continua contemplazione della sua essenza, ma anche Aion, il Primo dei Caduti...”.
Non ebbe il tempo di riflettere sulla stranezza del pensiero avuto (che sembrava estraneo, ma era la verità, lo sapeva), che si addormentò di nuovo.
Questa volta il sogno cominciò bene: stava volando. Lui e Morfeo erano stati grandi amici, un tempo, e forse questo era un suo regalo. Come era suo tipico, il tempo, o, meglio, il succedersi degli eventi in modo ordinato, non erano realtà che ritenesse rilevanti, quindi un dono di immensa importanza poteva tranquillamente succedersi al recapito di un incubo.
E così fu, il sogno continuò per il dono che era.
Volava in un cielo limpido e pulito, inconsapevole e dimentico di sé stesso. Volava in maniera incontrollata, come un aquilone dai fili recisi finito in mezzo ad una corrente ascensionale. Altri individui volavano con lui, ma il loro volare era più ordinato. Alcuni si muovevano nell'aria standosene ritti, altri con le braccia protese in avanti, come se in quella posizione potessero meglio fendere l'aria. Cercò di gridare loro la propria gioia, ma questi gli erano indifferenti, come se lui non esistesse. Sotto di sé vedeva palazzi altissimi e dalle architetture impossibili (pensò: “Come fanno quelle strutture assurde a stare in piedi?”), composti di ossidiana e decorati da scanalature argentate curvilinee ed eleganti. Tra questi palazzi scorreva un fiume, e, in esso, un’enorme quantità di persone vestite di semplici tuniche si stava bagnando.
“Si stanno purificando”, pensò, “non si stanno semplicemente bagnando, né stanno lavando la loro corporeità: si stanno purificando l'anima”.
Sapeva che il fiume era caldo ed ospitale, così come sapeva che se mai si fosse bagnato nelle sue acque avrebbe perso la capacità di volare e qualcos'altro di ineffabile (non avrebbe potuto dire cosa nemmeno in un milione di anni, per quanto sapesse che doveva essere stato importantissimo). A dargli conferma delle sue paure gli apparve accanto, volando composto, Emanuele, suo vecchio ed amato amico che non vedeva più da eoni, il quale, gli disse: “Ashmadai, se non vuoi che ti tarpino le ali, evita d’immergerti in quel fiume”.
Dapprima stordito dall'assurda affermazione dell’amico, lo contemplò sorpreso, cercò di rispondergli senza riuscirvi e volando disordinatamente finì con il precipitare in acqua.
E, così come presentiva e così come gli era stato detto, perse la capacità di volare. Divenne improvvisamente triste (triste di una tristezza abissale e raggelante), non capendone però il motivo.
Si immerse: l’acqua era calda, densa come sono dense le acque del Mar Rosso, e aveva un magnifico odore, di fiori di prato e nettare, avrebbe detto, ma non recava conforti.
Quel fiume era caldo, era pulsante come un'arteria divina, ma, su tutto, era l'unione di miriadi di entità: lo aveva capito non appena vi era caduto dentro. Voleva/no dirgli qualcosa (sussurri tutto attorno in una lingua metallica che gli era familiare gli accarezzavano le orecchie), e sentiva che, se avesse risposto,
(se avesse acconsentito)
la sua vita sarebbe cambiata per sempre, ma non ce la fece.
In realtà, come già era accaduto, non volle.
A convincerlo in quel senso era stato il tono di perentorietà che era la vera natura di quei dolci sussurri. Non sembrava che gli stessero dando modo di esercitare una reale scelta, sembrava che, per quanto gli stessero in apparenza sottoponendo alternative, di fatto lo stessero inducendo con l'inganno e la coercizione verso un unico sentiero,
perché, altrimenti, se avesse esercitato una scelta differente da quella voluta...
Si sentì ricattato con subdola violenza, e una furia incontenibile, apocalittica, la sua furia rovente, avvampò dal suo cuore come una supernova.
“Ho fatto la mia scelta eoni fa”, pensò sapendo di stare rivolgendosi alla/e presenza/e che lo circondava/no, “e la rifarei uguale adesso, quindi vattene, quindi andatevene, o vi distruggo, vi faccio a pezzi e vi disperdo nel Mare dell'Entropia”.
Urla acutissime, urla vetrose e dilanianti si levarono da ogni dove, urla che se le avesse ascoltate ancora per qualche secondo i timpani gli sarebbero esplosi ed il cervello avrebbe preso a colargli dalle orecchie e... lì si svegliò.
- “Mai che faccia sogni normali, checazzo”, borbottò semi-sveglio, lasciando che tutte le verità sottese in quel sogno svaporassero come trementina al sole.
Altro non pensò, altro non volle ricordare, e altro non ricordò. Questo era un sogno ricorrente, ma era anche anomalo: ogni volta si cancellava da sé. Sperò di riaddormentarsi nel più breve tempo possibile.
Stare sveglio in quelle ore e in quello stato, voleva dire pensare senza i filtri della consapevolezza, e, dal momento che quella condizione mentale gli aveva portato solo atrocità e stava contribuendo ad incasinare la sua vita più che mai, prima si fosse addormentato meglio sarebbe stato.
Finalmente cadde in un sonno profondo e senza sogni. Dovevano essere le sette o le otto di mattina.
La piccola morte finalmente giunse, con la potenza di una mazzata data ad una vacca per ammazzarla, e lui la benedisse per il prezioso dono che era.
Ore dopo giunse quello che si sarebbe dimostrato un altro terribile dono: la donnina delle pulizie, la quale arrivò, come Asmodeo le imponeva di fare, a mezzogiorno inoltrato.
Conosceva le consuetudini del suo datore di lavoro e, per quanto andasse vantandosi con le sue amiche di lavorare per una persona gentile ed amabile, le detestava a fondo (così come, in realtà, detestava lui).
Abituata a pulire una casa che di regola salvo gli strascichi tipici di una notte di eccessi a base di sesso e droga era relativamente pulita ed ordinata, rimase sconcertata nel vedere come l’appartamento fosse ridotto.
Sulla soglia del bagno vi e erano dei pantaloni bagnati e una camicia strappata, in quello che lei chiamava “salotto” e il suo datore di lavoro ostinatamente e con fare altezzoso la “sala home-theatre”, c’era un caos assoluto: schegge di cristallo ovunque, la poltrona rovesciata, una pozza di ca 10 cm di diametro di sputo, una pozza (vasta come un lago) di quella che senza possibilità di dubbio era orina e, orrore degli orrori, spruzzi di vomito vicino alla finestra e alla porta (come se qualcuno avesse prima vomitato in strada e poi si fosse trascinato in bagno, evidentemente senza riuscire a contenersi).
In effetti, anche se il grosso della vomitata l’aveva espulso fuori della finestra, Asmodeo aveva sboccato sulla chiambrana tra salotto e bagno, decorandola con degli schizzi che, a guardarli con senso artistico, sarebbero sembrati un'opera di Pollock.
Non ci andava un detective per figurarsi il suo elegante datore di lavoro che cercava di reprimere una vomitata coprendosi la bocca con la mano, col risultato di fare schizzare rigurgito dappertutto. Alzò lo sguardo e rimase atterrita: c’erano perfino degli spruzzi sul soffitto.
Entrò in stanza da letto e si trovò di fronte ad uno spettacolo ancor più desolante: il suo datore di lavoro, nella sua somma e stronzissima persona, nudo. Nudo e con del vomito secco su mani, viso e capelli. Provò a svegliarlo chiamandolo per nome, ma questi non si mosse di una virgola, spaventandola non poco.
Non temeva per lui in modo specifico, temeva l'orrore della situazione in cui stava finendo, quindi iniziò a sragionare.
Tentò allora di scuoterlo, ma, di nuovo, non ottenne nessuna reazione, spaventandosi ancora di più. Gli tirò una mano, lo pizzicò, lo prese a schiaffi, ma, ancora, nulla: fu così che entrò nel panico più cieco. Dopo un paio di minuti di crisi isterica trascorsi a scrollarlo e prenderlo a schiaffi, cercò di ricordarsi che cosa occorresse fare nei casi di overdose: poteva chiamare un’ambulanza, ma in quel caso il Signor A. sarebbe stato denunciato all'autorità giudiziaria, cosa che, se per come era stata istruita, mai fosse accaduta, lui l'avrebbe soppressa non appena gli fosse stato possibile, oppure poteva controllare se in bagno vi fosse un antagonista della sintoeroina. Se era un drogato previdente, avrebbe dovuto avere al minimo del Narcan (una sera le aveva fatto un lungo discorso sugli addicts intelligenti, come se fossero potuti davvero esistere, dicendole che lui non temeva le overdosi, perché le sentiva arrivare e aveva i mezzi per porvi rimedio)... E, dato che il Narcan rischiava di essere insufficiente con l'eroina di sintesi, se era davvero furbo come diceva, ci sarebbe dovuto essere dell'Expergiscor. "Furbo! Furbo un cazzo!", latrò e rise istericamente per diversi secondi. Sapeva cos'era e sapeva come e quando usarlo: in caso di overdose da sintoeroina, la campagna di prevenzione della Salutis lo riportava sugli olo-quotidiani, sulle communications interattive delle linee metropolitane, sui toraci dei robo-med che stanziavano sulle porte delle farmacie, era l'unico salvavita efficace. Il caso era quello, senza dubbio. Entrò in bagno correndo, mise a lavare i pantaloni impregnati di orina e la camicia strappata che si trovavano per terra e prese a frugare tra i farmaci di casa A. Mentre esplorava il mobiletto dei medicinali si dette della stupida per avere dato la precedenza a degli abiti sporchi invece che ad una persona in stato di coma apparente, ma, nel contempo, si rese conto che non avrebbe potuto farci nulla. “Ad ognuno le sue deformazioni professionali”, pensò, e rise. Per quanto fosse strano, il pensiero le era echeggiato in testa con la voce calma e profonda del Signor A. In effetti, era esattamente il tipo di espressione che denotava il suo carattere presuntuoso.
Quando vide tre fiale di Expergiscor accanto ad una sterminata quantità di fiale d’acqua distillata, atropina e torazina, emise un gridolìo compiaciuto.
Le fiale erano disposte così ordinatamente da dare l’impressione di essere le munizioni di un arsenale.
“Che ci farà mai poi con tutte quelle porcherie”, pensò la cameriera, “lo sa solo lui”.
Nel frattempo Asmodeo stava, con fatica, riprendendo coscienza. Nello stato in cui si sentiva si chiese per quale cazzo di motivo la donnina delle pulizie dovesse ridere istericamente, tuttavia, il pensiero fatto defluì via dal suo cervello, come se mai l'avesse attraversato.
-“Panta Rei... Così come scorre l’acqua del cesso... Tutto Scorre, bella mia ... Quindi vedi di andartene 'affanculo, stare zitta e lasciarmi dormire tranquillo”, disse a bassa voce Asmodeo, voltandosi appena, in modo che la luce del sole non lo colpisse in faccia. “Ma da dove mi è arrivata questa?”, si chiese stupito. Concluse che la stravaganza di quel pensiero dovesse dipendere da un suo recente sogno, in cui un compassato Eraclito rideva di quella sua battuta solo dopo essere stato edotto sull'esistenza e i modi di funzionamento delle moderne latrine e, soddisfatto, si riaddormentò.
In quello stesso istante la zelante cameriera stava chiedendosi come iniettare l’Expergiscor al Signor A., poiché non sapeva dove questi potesse aver lasciato la siringa automatica. Non che quel cafone si fosse mai premurato di nasconderla, a ben guardare. Non fece in tempo a finire d’insultare mentalmente il suo datore di lavoro per la sua spudoratezza che si rammentò che, di solito (il porco), lasciava la propria strumentazione da tossicomane nel salotto.
Come aveva previsto, la siringa automatica era lì, anche se non esattamente dove aveva immaginato che fosse. Era a terra, sotto la finestra, tra schegge di cristallo ed orina. La raccolse sconvolta e schifata, la pulì alla belle e meglio, strofinandola sulla fodera del divano, e, infine, inserì con gesti veloci la fiala d’Expergiscor nell'alloggiamento in cui prima era stata inserita la fiala d’acqua distillata. Cercò di farsi forza. Effettivamente, poteva ritenersi fortunata: se non avesse esercitato in passato le professioni di infermiera e, poi, di badante, sarebbe stata di certo in guai peggiori. Controllò il lato destro della siringa: il led verde che si era acceso stava segnalando che questa era pronta all'uso.
Entrò in camera e si diresse verso Asmodeo, a tal punto agitata da non notare neppure il suo cambiamento di posizione. Appoggiò la siringa automatica sul suo braccio destro, selezionò l'opzione d'inoculazione rapida e la mise in funzione (incurante, nella sua foga innocente, dell’eventualità che l'Expergiscor avrebbe fatto non solo riprendere il suo inaspettato paziente, ma l’avrebbe anche, letteralmente, scaraventato in carenza).
Il solleticare prodotto dal martellìo della siringa riportò gradevolmente alla consapevolezza Asmodeo, che si chiese quale dolce fatina potesse essere così gentile da svegliarlo con un'iniezione di sintoeroina. Lo stupore che provò quando si rese conto di avere seduta accanto a sé, sul suo cazzo di letto, la signora Elisabetta (detta "Betty"), fu tale che non tentò nemmeno di verificare cosa stesse accadendo: pensò che dovesse trattarsi di un altro incubo (ma uno di quelli davvero schifosi), e, quindi, la lasciò fare.
L'ago centrò la vena con una rapidità maggiore del solito; questa volta però, l'usuale sensazione di calore che si diffondeva dal punto dell'iniezione fu soppiantata da una sensazione inedita e brutale: si sentì come se gli stessero iniettando nelle vene acido bollente, e, immediatamente dopo, ebbe una scossa nervosa che lo fece sembrare un epilettico. Annaspò qualche secondo, respirò come una persona che, mentre sta annegando, riesca a prendere una boccata d’aria con la forza della disperazione e, infine, si capacitò con orrore totale di quanto stava realmente accadendo: quella pazza insensata della sua cameriera gli aveva iniettato dell’Expergiscor, altro che cazzi! Altro che fate e sintoeroina!
-“AAAAAAH! BRUTTA... BRUTTA STRONZA RIMBAMBITA! Che... Che cazzo hai combinato? Non sai il cazzo di danno che hai fatto!”, urlò Asmodeo col volto congestionato e i nervi del collo di un biancore abnorme (alla velocità della luce si rese conto che: si stava pisciando addosso; gli scappava da defecare, tremava in modo incontrollato, e maledetto il mondo e quanto cazzo ci stava sopra, si sarebbe dovuto sparare in vena il doppio di quanto non si faceva di solito solo per riprendersi a malapena).
La tenera e in apparenza asessuata Betty la guardò, e, contro ogni sua attitudine, le venne in mente un glande prossimo all'eiaculazione, ma, sul momento, non riuscì a dire nulla.
-“Ma porca merda, mi capisci quando parlo? Che cazzo ti è venuto in mene di fare, per la puttana?”, le urlò contro.
-“Ma... Ma... Signor A., io credevo...”, disse a voce sussurrata, dopo diversi secondi, riprendendosi dallo shock.
-“Che cazzo credevi? Non ti bastava svegliarmi come sempre, con un cazzo di tazza di caffè? Ti sei bevuta quel poco cervello che hai?”, gridò gesticolando Asmodeo. Tremava sempre di più.
-"Dio, aspetta, mi cago addosso! Puta madre!", urlò e si scaraventò in bagno, curandosi in modo specifico di lasciare la porta aperta.
-“Mi creda, si sarebbe dovuto vedere!”, urlò di rimando la donna, imbarazzata per quella porta che sapeva essere stata lasciata aperta con cattiva deliberazione. “Che ingrato schifoso”, pensò.
-“Ingrato schifoso? Come? In che cazzo di senso?”, gridò allibito Asmodeo, mentre una rumorosa scarica diarroica quasi coprì la sua voce.
-“Io non ho detto niente!”, rispose la donna rossa in viso e poi si portò una mano sulla bocca, come chi cercasse invano di riparare ad una frase di cui si era appena pentito.
-“Brutta troia! Ti ho sentito!”, urlò Asmodeo, e, di nuovo, degli orrendi rumori provenienti dal suo retto accompagnarono il suo grido.
-“Davvero! Non penso sia proprio il caso d’insultarmi in questo modo, Signore, io le volevo salvare la vita, Signore!”, rispose Betty, in parte per orgoglio ferito, e in parte perché, temendo per la propria incolumità, stava cercando qualche pretesto cui appigliarsi, ma la rabbia la sopraffece. E così, senza nulla poterci e volerci fare, soggiunse mentalmente a sé stessa: "Stronzo bastardo! Ti auguro di morire su quella latrina!".
-“Tu, tu, tu... Io uno stronzo bastardo?! Pazza rintronata! Salvarmi la vita? Ma se ero sveglio! E ora mi stai pure augurando di crepare!”, latrò Asmodeo dal bidet, su cui si era nel frattempo spostato.
-“Non era affatto sveglio! E glielo ripeto: la smetta di insultarmi, brutto stronzo tossicomane che non è altro!”, ribatté, fulminando Asmodeo, la sua sempre impostata colf. Non aveva mai usato espressioni volgari di sorta in sua presenza, quindi Asmodeo non poté fare a meno di ridere.
Uscì dal bagno, ancora nudo, tremante ed incazzato più che mai, perché la sua risata aveva avuto l'incredibile effetto di rassicurare la donna e farle pensare che tutto il disprezzo che da sempre inconsapevolmente provava nei suoi riguardi fosse non solo giustificato, ma suscettibile di esternazione.
La mente razionale di Asmodeo, già messa a dura prova, implose su sé stessa.
Quando percepì le ondate che emanavano dalla sua mente (dalla sua anima? dalla sua essenza?), Asmodeo si pietrificò: aveva sempre odiato le ingerenze altrui nella sua vita, eppure, poiché tossicodipendente cronico, manifestava una certa indulgenza verso coloro che si preoccupavano per lui con sincerità. Invece, quella brutta stronza aveva scritto in faccia quello che provava nei suoi confronti; ogni volta che era costretto ad averci a che fare aveva percepito con precisione il disprezzo che cercava di nascondere perfino a sé stessa. Ora ondate di malevolenza lo stavano travolgendo con una forza tale che non riusciva a contrastarle.
Fu quella constatazione che, se ne rese conto dopo, gli aveva fatto perdere il controllo; eppure, agì con una rapidità tale da lasciare stupito anche sé stesso.
Saltò in avanti gridando inferocito e le dette una testata in faccia.
Colpì in pieno il di lei naso, che scricchiolò sinistramente.
La donna svenne all’istante.
La guardò, e dubitò del suo stato di veglia: stava sognando, non c’era altra spiegazione.
Tossì, starnutì sangue e ciò lo convinse che era sveglio.
Forse.
Fu così che iniziò la sua giornata.
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