Primo Interludio
Sballo
Immagini tremule
Il mio corpo fluttua leggero
Sui cespugli dei miei deserti in fiore
è caldo, avvolgente
Pieno d’amore, traboccante di vita
è come quando, bambino
Mi scioglievo su salsi splendori marini
è un attimo
Vorrei dilatarlo ed estenderlo
Ma già
Le lame della lucidità
Si fanno sentire
E, inevitabili e giuste
Nella casa della normalità mi riportano.
- Cap.2
- In viaggio
Aprì la porta di casa in preda ad un violento tremore, neanche se quei pochi minuti trascorsi da che era sceso dalla metropolitana potessero realmente fare la differenza tra dei sintomi astinenziali tollerabili e lo sfascio più completo.
Si rese conto che, come in altre occasioni, era stata solo la volontà di non cedere in pubblico a permettergli di starci dentro durante l’ultimo tratto di viaggio. In effetti, non ostante fosse un addicted con tutti i crismi propri degli addicts (e anche qualcuno in più), non accettava per niente né l’idea di mostrarsi a rota né quella di apparire sfatto in mezzo a degli estranei.
Cercò la siringa a ricerca automatica delle vene e notò che questa faceva bella mostra di sé sull’olo-proiettore della stanza che aveva adibito ad home-theatre. Viveva da solo, e del parere della donnina delle pulizie non gliene importava nulla. Gliene importava delle sue donne, dei suoi amici e perfino delle sue vittime, ma della donnina delle pulizie una sega. Perché, non avrebbe saputo dire. O forse sì: le stava ferocemente sulle palle, e farla inorridire di proposito era diventato un gioco in cui sempre più spesso indulgeva. L’unica cosa che sperava era che la di lei attitudine professionale le impedisse di mettere le mani sulla sua attrezzatura da agofìlo.
Entrò in bagno, prese una fiala d’acqua distillata e si diresse con fare famelico verso l'automatic-spike. Inserì la fiala nell'alloggiamento relativo, aprì la busta di sintoeroina e ne rovesciò buona parte nel miscelatore. Premette il bottone che faceva fluire il contenuto della fiala nel miscelatore e attese qualche secondo affinché la sostanza si sciogliesse nell'acqua. La resistenza che portava la mistura d’acqua e polvere magica a sciogliersi era difettosa, ma questa volta non ci furono problemi, e la stessa si sciolse in uno sfrigolìo aromatico. L'odore, come tutte le volte, gli dette lievemente allo stomaco. Ora non rimaneva che selezionare la velocità alla quale spararsi tutto in corpo: scelse quella intermedia, poiché era troppo a rota per farsi a velocità lenta e non aveva nessuna intenzione di rischiare un’over facendosi un’hyper-spike.
Si appoggiò la siringa automatica vicino alla giugulare e la mise in funzione. Il solletichìo che questa produceva mentre cercava le vene lo rilassava ad un punto tale da rendergli le gambe molli, non tanto perché fosse gradevole in sé, quanto piuttosto perché, come uno dei cani di Pavlov, che si metteva a salivare non appena venisse stimolato in una determinata maniera, sapeva quali fossero le sensazioni che a quel leggero trapanare sarebbero seguite.
L'ago della siringa automatica, infatti, nel fare il suo dovere, forellava l’epidermide fino a che incontrava le pareti venose, e il suo cervello non solo sapeva cosa ne sarebbe seguito: lo bramava. Inevitabile che non sbavare fosse dura.
Sentì l’usuale martellio ancora qualche secondo (aveva sempre avuto problemi a scovarsi le vene), e, infine, l’ago trovò ciò che cercava. La sensazione che seguì fu piuttosto violenta, poiché questo s’introdusse con notevole velocità. Ora la siringa stava pompando il suo contenuto con il solito, familiare ed amichevole rumore di sempre: quello di un copertone da bicicletta che si sgonfia rapidamente.
Sussultò senza volere e poi, in maniera altrettanto incontrollata, emise un cupo mugolìo. Ebbe dopo l’impressione di levitare, sensazione dalla quale si sarebbe fatto di certo ingannare, se non avesse avuto la mano sinistra avvinghiata al bracciolo del divano su cui s’era accomodato. Aprì gli occhi, e fu in quel momento che lo spettacolo, nuovo e del tutto imprevedibile come ogni volta, ebbe inizio: la tonalità prevalente, che fino a quel momento era stata un colore verde smorto dipendente dal verde mare con cui erano decorate le sue pareti, poiché le luci erano spente e la stanza era illuminata in modo soffuso dai lampioni in strada, stava scivolando lentamente verso il rosso. Fu avvolto da un piacevole tepore, tanto intenso che ebbe il dubbio di essere accoccolato all'interno di un'enorme e accogliente vagina. L'idea era affascinante e conturbante allo stesso tempo: dovette sforzarsi parecchio per far sì che quell'assurdo sentore cessasse. Si alzò di scatto, perché oltre non voleva andare: temeva che se si fosse abbandonato a quell'anomala allucinazione la situazione si sarebbe potuta fare sgradevolmente umida.
Accese l'antiquato e sfavillante amplificatore valvolare e il multi-lettore, nel quale aveva lasciato di proposito l'ultimo long playing degli Stead e si affacciò alla finestra. Non appena iniziò la riproduzione della musica emise un'esclamazione di paura esterrefatta, poiché gli successe qualcosa che neanche un addicted navigato come lui si poteva aspettare: i suoni emessi dai diffusori a campo magnetico gli erano diventati visibili.
“Caaaazzo”, pensò.
I bassi erano di un viola oscuro, le tonalità medie amaranto e gli alti di un rosso brillante.
Ad ogni picco sonoro, delle onde, simili a quelle che si diffondono in uno stagno quando ci si lancia un sasso dentro, si allargavano rispettivamente dagli pseudo-woofer, dagli pseudo-middle e dagli pseudo-tweeter (woofer, middle e tweeter, di fatto, non esistevano: erano solo delle incisioni al laser sul fronte metallico dei diffusori, lavorati esteriormente sulla falsariga dei loro corrispondenti reali).
A sconcerto s’aggiunse sconcerto quando il cantante degli Stead esplose in uno dei suoi ferali acuti, perché questo partì dagli pseudo-alti dei diffusori magnetici come se fosse stato un fascio di luce laser, raggiunse, nella forma di un flusso voluttuoso e barocco, le pareti prospicienti, in parte si riverberò in ondate che si disperdevano nell'aria e in parte prese a defluire come metallo fuso.
Chinò lo sguardo, esterrefatto, incuriosito e non poco spaventato, e vide che l'acuto fuoriuscito dai diffusori magnetici si stava addensando in una pozza che sembrava una sorta di magma rosso-oro.
Allucinante, un filo spaventoso, incredibilmente affascinate ed assolutamente appropriato. Se un acuto di Adam Lynn si fosse mai dovuto sostanziare, quello era certo l'aspetto che avrebbe dovuto avere.
Si chiese se stesse vivendo un'allucinazione particolarmente vivida o se avesse per miracolo sviluppato la capacità di percepire il mondo per ciò che in realtà era davvero e, subito, la risposta giunse al suo disastrato cervello con la voce di Arnolfo: “Sei solo fatto come una scimmia, amico mio; niente più e niente meno di questo. Non eri tu stesso a definire la descrizione dell’Iper-Realtà data dai monaci della Comunione Cosmica come nient’altro che un trip andato in vacca?”
“Già, ragazzo...”, rispose mentalmente Asmodeo al suo inaspettato interlocutore, “...che arroganza pensare addirittura di percepire le cose per quel che sono davvero, eh?”
Lo meravigliava e spaventava ogni volta il modo in cui, quand'era sotto effetto, le voci dei suoi immaginari interlocutori gli risuonassero in testa, riproducendone con esattezza tonalità, inflessioni e modi di dire, tanto che più di una volta aveva creduto d'essere diventato schizofrenico, tuttavia, in questa occasione in particolare, non provava alcun timore.
La conversazione gli pareva del tutto normale, anche se, di fatto, era un soliloquio.
-“Ti ricordi quella volta che Alex rimase un’intera notte di fronte ad un murales dicendosi che pareva di un blu incredibile e poi, il giorno dopo, vedendolo da lucido, si rese conto che era davvero blu?”, disse come parlando de visu ad Arnolfo.
“Certo che mi ricordo... Ogni volta che me la racconta mi piego in due dalle risate”, ribatté quella parte del suo cervello che ormai pareva avere assunto vita propria.
-“Ah-ha! Ma quant'è coglione quel ragazzo?”, quasi urlò Asmodeo, sussultando per la meraviglia di stare, di fatto, parlando da solo.
Vacca boia, non c'era nessuno con lui: stava parlando da solo. Aveva sentito la voce di Arnolfo in un modo assolutamente inedito, come se quegli fosse stato presente, e rendersi conto che era da solo, in casa sua, allucinato e perso come un birillo da bowling su Marte, lo stupì ancor più seriamente.
Allo stupore subentrò all'improvviso una vaga ed incoercibile inquietudine, dovuta in parte al timore d'avere sbiellato ed in parte al fatto che si sentiva un idiota ("Vai, mi sono partite le bielle! Il cervello mi s'è fottuto!", pensò).
Fu per questi motivi che si disse che sarebbe stato meglio ricacciare Arnolfo dalle profondità mefitiche da cui era fuoriuscito. Curiosamente, quel pensiero si tradusse nell’immagine di sé stesso che spingeva il suo amico, disarticolato come un bambolotto di pezza, dentro un enorme tuba da prestigiatore. L'immagine era così nitida e precisa che più che un'allucinazione gli parve un film in UHD proiettato all'interno delle pareti del suo stesso cranio.
Scosse la testa nella speranza di riprendersi e il movimento effettuato gli fece dolere il collo e la cervice.
Si ricordò quanto aveva letto a proposito dell’acido lisergico, il quale, per quanto fosse in sé atossico, poteva bruciare milioni di neuroni a trip. Sapeva che ciò avvenisse a causa potenza delle allucinazioni, e che esulasse del tutto dalla nocività della sostanza, ma sapeva anche che così non era per la sintoeroina. Si chiese, quindi, che danni potesse causargli quest'ultima, poiché, essendo tutt'altro che atossica, doveva per forza produrre sia lesioni di origine psicologica sia danni di origine fisiologica.
L'esperienza che stava vivendo, si rendeva conto, gli doveva stare disintegrando quantità eccezionali di neuroni.
Ci ragionò sopra per qualche secondo e si rese conto che, in fondo, non gliene importava un cazzo di niente.
Anzi, la spinta compulsiva ad iniettarsi in corpo sostanze stupefacenti di vario genere non era mai stata così potente. E, d’altra parte, egli non era mai stato così arrendevole nell'assecondarla.
Era vocazione di morte, lo sapeva, ma, a differenza di quanto era accaduto in altre fasi della sua vita, in quel periodo particolare non riusciva a controllarsi in nessun modo.
O, forse, non voleva.
In ogni caso, a rendere tutto più complicato c’era il fatto che si stesse infognando pure di cocaina.
La sua più grande passione, in quanto a droghe, aveva scoperto, era farsi di revuelto: preferiva sbomballarsi di sinto & coca all'eventualità di scopare, almeno nell'assurda ipotesi in cui si fosse trovato costretto a scegliere tra l'una e l'altra cosa.
A ben guardare, la verità della sua vita era un'altra: preferiva drogarsi e poi scopare.
Peccato solo che l'addiction di eroina sintetica, congiunta a quella di cocaina, avesse dei costi esorbitanti.
Costatò che, quantunque si fosse sparato circa tre quarti di grammo, gli rimaneva addosso l’usuale carica di rabbia e insoddisfazione di sempre. Quel mostro che, per lo più, se ne stavo quieto e nascosto, ma che, di recente, lo aveva portato più di una volta oltre confini che per prudenza non avrebbe dovuto mai superare. Ne andava della sua sanità fisica e della sua sanità mentale. Il problema, pensò, era davvero grave: in metropolitana, si rendeva conto, aveva delirato per diversi minuti, incapace di distinguere il vero dal falso, il sogno e il delirio ipnagocico dalla realtà.
-"Cazzi e 'sti cazzi, ti stai facendo dei complimenti: non sai nemmeno distinguere il sopra dal sotto", disse a sé stesso e un'intensa scarica di brividi lo scosse in profondità, fino al buco del culo.
"La gravità, la porca gravity, ha le sue regole, no?", disse ad alta voce, e un'immagine folle, incongrua, truce, eppure, lo sapeva, oscenamente reale, gli colpì gli occhi della mente con una forza tale che, per poco, non lo accecò per davvero. Di riflesso portò le mani agli occhi urlando, se li strofinò con una tale violenza - come se fossero stati pieni di sabbia, o, peggio, sabbia e sale - che questi si misero a lacrimare in modo incontrollato. Avesse saputo che stava piangendo sangue avrebbe dato di matto del tutto. L'umidore lo spinse ad affondare la faccia in uno dei cuscinotti neri che sommergevano il divano, e, senza saperlo, si garantì ancora qualche tempo di quasi-sanità mentale. Il sangue disparve e lui nemmeno si rese conto di avere appena vissuto un'esperienza alquanto rara ed atipica, che, per quanto in altri avesse spiegazioni fisiologiche precise, nel suo caso con l'emolacria non c'entrava nulla.
Ma lui non sapeva un sacco di cose di sé stesso.
Per la verità, lui non sapeva un cazzo di niente di sé stesso, del suo vero sé; era una situazione atipica, perché particolari della sua vita essenziali - come il suo primo giorno di scuola, il suo primo bacio vero, la sua prima volta con una donna, la vita con la sua famiglia prima che si decidesse a vivere da solo, le scuole medie e superiori, quasi tutto il periodo dell'università - li sentiva come se li avesse vissuti in terza persona, ma non importava. Per la verità, se ne fotteva: molti episodi della sua vita erano stati come un film di cui era stato spettatore, non protagonista, ma negli ultimi anni le cose erano cambiate.
"L'Appeso": pensò, senza rendersi conto di come quel Tarocco calzasse rispetto ad una serie di ricordi che lo stava affliggendo in particolare modo. La dodicesima carta degli arcani maggiore dei tarocchi. Rammentò che, nei mazzi più antichi, lo stesso arcano veniva talvolta indicato anche come "Il traditore". "L'Appeso" tiene in mano due sacchetti di monete talvolta stilizzati in semplici sfere, a rappresentare il prezzo del suo tradimento. Un Capaldi anatomicamente disfatto con le gambe nella posizione del Traditore che galleggiava di fronte a lui, svaccato-sfatto-nudo-insanguinato sul divano del soggiorno, doveva essere per forza un sogno pazzo... Capaldi era un traditore. Aveva tradito sé stesso, familiari, moglie, figli e colleghi di lavoro, usandolo come semplice strumento di vendetta, e, questo, quando lo aveva compreso, aveva distrutto ogni suo istinto di conservazione, autocontrollo e senso logico. La vendetta era stata assolutamente sproporzionata, così smisuratamente sproporzionata che faticava a credere di avergli fatto ciò che gli aveva fatto... Ma... Ma i sogni avevano una data qualità, lo sapeva, gli stati ipnagogici indotti dalle droghe ne avevano un'altra e la realtà un'altra ancora, quindi proprio non riusciva a mettere assieme i pezzi del puzzle che stava cercando di ricomporre (semplicemente: cosa era accaduto nelle ultime due settimane?). Per la verità, il problema era più ampio: non riusciva a ricomporre i frantumi in cui sembrava essersi spappolata la sua essenza, ma era meglio non soffermarcisi troppo.
Parlando di nuda e cruda realtà, essa chiamò, infida puttana che non era altro: il Flash Royale, tipico dei primi minuti di viaggio, stava esaurendo i suoi effetti; certo, la sinto che aveva in corpo avrebbe continuato a farsi sentire per diverse ore, ma non bastava. Per compensare l’angoscia chiuse gli occhi e si mise a cantare il refrain del pezzo degli Stead che stava ascoltando e, all'improvviso, si intristì ancora di più. Non che ciò lo stupisse in qualche modo; nondimeno, per quanto sapesse che l'abuso di ero di sintesi, incidendo sull'ipotalamo e l'amigdala, portasse ad inaspettate variazioni d’umore, rimase contrariato dalla propria incontrollabile volubilità.
L’ira esplose così in modo così repentino da sommergere ogni altro pensiero. Pensò che, se in quel momento, si sentiva così frustrato, era solo perché era solo.
Karelle, doveva chiamare Karelle, la sua attuale compagna. Odiava l’idea di dovere dipendere da un altro individuo; pure, la consapevolezza di potere fare sesso tutta notte contribuiva a rendere più accettabile l'orrore e lo schifo dal quale si sentiva circondato ed oppresso.
Rimase quindi tanto deluso dal sapere che lei non avrebbe potuto raggiungerlo che si trovò con gli occhi a lacrimare. Poi iniziò piangere, con trasporto e senza freni. Questa volta pianse lacrime standard. Cercò di capire perché stesse piangendo in quel modo , ma non ci riuscì. Dopo oltre tre anni gli era ancora difficile capire cosa provasse nei confronti di Karelle, poiché pur essendo questa assai intelligente, rientrava, a pieno titolo, nella società dei normodotati (era così che lui chiamava i sani, e non in senso dispregiativo, ma solo perché lui e la normalità erano agli antipodi), ma il punto, ne era quasi certo, era solo che quella notte non voleva starsene da solo.
Quella maledetta notte lo spaventava. Un senso di distruzione incombente gravava su di lui, e non ce la faceva più a stare solo.
Di fatto, c’erano situazioni in cui la di lei compagnia era l’unico argine che riusciva a contenere la marea nera che ogni tanto lo sommergeva, ma quella notte era diversa: forse nemmeno Karelle sarebbe bastata, con tutte le sue arti, le sue dolcezze, e, incredibile ma vero, il suo amore. Per qualche folle ragione, lo amava davvero, pazzo sgangherato e demente che altro non era; lui non ricambiava, ma la considerava una parte imprescindibile della sua vita recente.
Non sapeva perché, ma intuiva che quella notte non sarebbe dovuto rimanere da solo.
Di compagnia maschile però non se ne parlava.
Spense lo stereo (il trip musical-visivo che stava avendo lo stava stancando), e decise di farsi un’altra volta.
Le onde sonore tornarono ad un nero mutismo con un risucchio che gli fece tappare le orecchie.
Musica colorata e colori sonori: non era la prima volta che gli accadeva, ma il nitore assoluto dell’esperienza che aveva vissuto quella notte sconfinava in un universo che preferiva non conoscere.
Forse perché varcarne la soglia avrebbe voluto dire trovarsi davvero in un Altroquando dalle regole sovvertite?
Preferiva evitare di pensarci.
Adesso, in fondo, niente più contava, tranne farsi.
Cercò la paura, ma non la trovò.
Si chiese che cosa, col trascorrere degli anni, avesse potuto renderlo così arido, eppure non seppe darsi risposta.
Ricordò che c’era stato un tempo nel quale potevano renderlo felice le cose più insignificanti: una bella serata d’estate trascorsa ai Murazzi, le belle femmine, gli amici, un bell’olo-movie in Ultra High Definition.
Quando quelle piccole e bellissime cose avevano perso di significato?
Erano state le sostanze a renderlo tanto cinico e freddo da potere ritenere accettabile (persino eccitante, cazzo), storpiare a morte le sue vittime o era nato merda? Era l'ero di sintesi che da un lato, piallava l'ego e, dall'altro, ti portava a livelli di aberrazione tale da ritenere moralmente accettabile l'inaccettabile o era nato con un ego refrattario al bene, all'empatia, e, a guardare a fondo, già corrotto e depravato in nuce?
Mentre tentava di darsi una risposta s’iniettò altri 3/4 di grammo di sostanza.
Scivolò in overdose così in fretta che non se ne rese neppure conto.
E, poi, fu il nero assoluto. Un nero così nero che, a confronto, il buco del culo di Satana sarebbe stato il luogo più illuminato dell'universo.
Fu così che si concluse la serata di Asmodeo, personaggio indefinibile e incompreso ai più, e, soprattutto, non compreso a sé stesso.
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