Ogni riferimento a cose (in specie velocipedi) o persone esistenti e a fatti realmente accaduti è, purtroppo, tutt'altro che casuale... Ho protetto le vere identità delle persone qui coinvolte con pseudonimi, e quanto narrato a seguire corrisponde ad assoluta verità, quindi chiedo a coloro che si dovessero riconoscere in questo Amarcord di perdonare le mie mancanze e i miei peccati.
Se può giustificarmi: all'epoca dei fatti narrati ero davvero giovane, e, sul serio, in certi momenti non sapevo che cazzo facevo. Per lo più ero come un missile teleguidato, quindi sapevo cosa facevo, ma talvolta, quando mi comportavo come un missile teleguidato con la teleguida andata da puttane proprio non pensavo alle conseguenze delle mie azioni ("Hey", penserà qualcuno di voi, si dice "Andare a puttane!", e, beh, lo so, ma preferisco la variante suddetta).
Quindi che il Signore, la Materia, lo Spirito e quanto esiste in Cielo, in Terra e Sottoterra perdonino i miei peccati passati (e pure futuri, già che ci siamo): ne ho davvero bisogno.
- Intro
Diverse notti fa mi è venuta l'idea per un racconto.
Vorrei che fosse qualcosa di autonomo, ma direi una bugia...
In realtà, l'idea m'è venuta leggendo "Stand by me", di King.
Fino a che non c'ho sbattuto il naso non lo sapevo, ma "The King" non ha scritto solo horror, fantascienza e fantasy...
Ha scritto anche un bellissimo libro, "Stagioni Diverse", fatto di quattro racconti, ognuno corrispondente ad una stagione (non ho capito se metereologiche o della vita), e, da cui, per quanto ne so, ne sono stati pure tratti tre ottimi film: "Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank", che è diventato "Le ali della libertà", "Un ragazzo sveglio", che è diventato "L'allievo", e "Stand by me", che, invece, è rimasto "Stand by me".
Dal quarto racconto, "Il metodo di respirazione", credo non sia stato tratto (né verrà tratto mai) nessun film, anche perché è troppo "racconto" nel senso stretto del termine, e sarebbe davvero dura cavarne un plot di lungo respiro.
Dei racconti magnifici, tornando al discorso di prima, che mi hanno fatto capire a fondo perché King mi piaceva tanto : è un creatore di mondi.
Personalmente, quei racconti mi hanno catturato talmente tanto che, a tratti, leggendoli, mi si stringeva il cuore.
King stesso, in "Mucchio d'ossa", afferma che un personaggio di fantasia, per quanto ben delineato, non sia altro che quello: "A bag of bones", e che mai potrà avere lo spessore e la consistenza che hanno le persone vere.
Non credetegli.
Forse con gli anni ha perso la verve stregonesca che si ritrovava, ma una volta sapeva scrivere con tale maestria da farti illudere di stare affacciandoti su "mondi altri".
Altri e completi.
I personaggi del suo periodo d'oro sono come i personaggi in cerca di autore di Pirandello: sono così belli e definiti che non ti stupiresti se li vedessi uscire dalle pagine dei loro libri.
Diamine, ho letto "The Stand" che avevo 17 anni, eppure Stuart Redman e Larry Underwood me li ricordo come se fosse ieri (una Underwood fu, tra parentesi, la macchina da scrivere che King ricevette in regalo a nove anni).
E, faccio per dire, ho 32 anni...
Comunque: sto divagando.
Dicevo: ieri notte mi è venuta l'idea per un racconto.
Me l'ha fatta venire, appunto, "Stand by me", perché parla della poesia mistica e strana di certi momenti dell'adolescenza e di come quei momenti si possano imprimere in modo indelebile in te.
Il protagonista, Gordon Lachance, è uno scrittore (Richard Dreyfuss nel film omonimo), e racconta di quando si lanciò, accompagnato da tre suoi amici adolescenti come lui, nell'avventura folle di andare a vedere il cadavere di un ragazzino finito maciullato da un treno. L'idea era quella, dice Lachance-King, di denunciare il ritrovamento della salma e diventare degli eroi. Oltre a quello, in realtà, e Lachance-King non ne fa mistero, né si nasconde dietro falsi moralismi, l'idea era quella di sperimentare l'esperienza nuova e morbosa di vedere un cadavere.
Quello che mi ha colpito di questo racconto (che, tra i quattro di "Stagioni Diverse" è il migliore), e che mi ha fatto venire voglia di scrivere quanto sto ora scrivendo, è questa frase: "Sapevamo esattamente chi eravamo e sapevamo esattamente dove stavamo andando".
Niente di più vero.
E qui comincia il mio racconto.
- Il Ricordante
A dodici anni sai esattamente chi sei, e sai esattamente dove stai andando.
Sei, per usare l'espressione che usò il medico che mi visitò il giorno dopo il mio secondo trip di LSD, che si concluse parecchio male, con me che parlavo con Dio, per intenderci, "orientato nel tempo e nello spazio".
Rammento di essere stato abbastanza precoce, e con la consapevolezza degli adulti il mondo può apparirti come una giostra fuori controllo, ma a dodici anni avevo il mondo in pugno.
Malgrado non fossi un enfant prodige, già ad otto anni avevo pensieri che, in un certo senso si potrebbero dire "adulti"; eppure, tutto allora era diverso.
Diverso e, poche ciance, più semplice.
Forse perché il tuo mondo è un'isola delle dimensioni di un minuscolo atollo, ma che importanza ha?
Adesso invece nei miei giorni migliori ho un'idea meno che vaga di chi cazzo sono, di dove sto andando a parare, di come cazzo sono arrivato qui e del perché.
Le sensazioni più strambe (mi si passi il termine, perché rende l'idea alla perfezione) le esperimento quando riesco a fare astrazione da me stesso, e riesco ad osservarmi dall'alto, così come uno scienziato osserverebbe un batterio al microscopio.
Non si tratta di sensazioni necessariamente sgradevoli, ma la componente dello straniamento è quella che pesa di più.
In buona sostanza, è straniante e, in modo tragico, buffo, vedere le cazzate che posso avere fatto o detto, vedere il male che posso avere perpetrato sotto forma di atti di cieco egoismo e brutale indifferenza, vedere quanta solitudine posso avere sopportato da quando le cattive abitudini hanno preso il sopravvento su tutto il resto.
Credevo che dire di sentirsi solo in mezzo agli altri fosse un vezzo da cazzone romantico, e, invece, sbagliavo. Tanto per dire, una volta mi sono sentito solo mentre facevo sesso. La ragazza con cui ero, vedendomi le lacrime agli occhi, si commosse, credendo che fossi tanto preso da lei da dovere piangere.
Avesse saputo la verità mi avrebbe preso per un pazzo.
O per un cazzone romantico, forse.
Ma non mi commisero: prima o poi comprenderò da cosa sto fuggendo, cosa realmente mi ha portato dove sono e, quando tutto questo accadrà, sarò libero.
Almeno, checcazzo, spero.
In ogni modo: come spesso mi capita quando penso e scrivo, sto divagando.
Dicevo: c'è stato per me un tempo in cui sapevo chi ero e dove andavo, ma soprattutto, c'è stato un tempo in cui quasi tutti i giorni mi divertivo.
Rammento che talvolta il "sense of wonder" era così potente che, se mi ci fossi abbandonato con trasporto eccessivo, avrei rischiato di rimanerci secco.
Ad esempio: a nove anni ricevetti in regalo una bici di quelle che andavano tanto di moda all'epoca, consistenti in brutte imitazioni di chopper, e ne fui talmente contento che esultando quasi mi fracassai un piede.
Ero così felice che mi misi a piroettare sulle mie stesse chiappe, e non mi fermai fino a che non sbattei con violenza il suddetto piede contro un muro.
Se non fosse andata così probabilmente avrei continuato a girare su me stesso fino a farmi venire la nausea.
Anni dopo quella bici mi si sarebbe, nel senso letterale del termine, disfatta tra le mani: stavo impennando, e, a seguito di una " 'penna" forse un po' troppo violenta, prima si sfilò il manubrio, e poi il tubo della sella (che, posso dire a posteriori senza timore d'esagerare, essendo bloccata posteriormente da due staffe, si srotolò all'indietro come se fosse stato un meccanismo nato con quello scopo). Inutile dire che caddi rovinosamente sulla schiena. Ricordo però che trovai la cosa tanto esilarante che il dolore passò in secondo piano. Fu, forse, una ritorsione: quella bici ne aveva patite così tante che non escludo si fosse voluta vendicare su di me.
In particolare, si dovette incazzare parecchio quella volta che le feci fare il "Salto del Secolo".
Fu così che andò: vidi un cospicuo mucchio di terra ai Giardini Reali (io sono di Torino, se non si fosse capito), al Rondò Rivella, dove Corso San Maurizio, Corso Regina e Corso Regio Parco si incrociano, e decisi che l'avrei dovuto usare come trampolino.
Sarebbe stato, mi dissi appunto, il "Salto del Secolo".
Sono pronto a giurare che, se l'avessi detto ad alta voce, avreste sentito le majuscole.
Partii, per darmi la rincorsa, da Piazza Castello, che è più in alto del Rondò Rivella: ora che sono adulto mi rendo conto che fu non sono un'idea folle, ma pure un tantino idiota, poiché il mucchio di terra di cui dicevo era così lontano da Piazza Castello che ogni slancio datomi dalla discesa si sarebbe di certo esaurito prima che vi arrivassi.
Ciò malgrado, giunsi al trampolino sparato come un proiettile, e quella fu esattamente la fine che feci: mi sparai nell'alto dei cieli.
Non scherzo, né esagero: dovetti fare un volo, in altezza, si intende, di un metro e mezzo, non meno. Longitudinalmente dovetti viaggiare per non meno di tre metri. Sono sempre stato parecchio scoordinato, così non riuscii in alcun modo a controllare il salto: il risultato fu che la bici atterrò di punta. Me ne resi conto, mi resi conto cioè che la bici stava inclinandosi troppo in avanti, e che mi sarei fatto enormemente male, ma non riuscii a farci nulla.
E, com'era immaginabile, mi spappolai.
Mi ritrovai con della ghiaia in bocca, tanto per spiegare quanto male mi feci.
Eppure, durante il volo, provai un'esaltazione cieca e soffocante che, sebbene non dovette protrarsi per più di due o tre secondi, mi parve essere eterna.
Fu uno di quei momenti in cui mi sarei messo a gridare, come faceva la nemesi di Fantaman ("Ogon Bat", nell'originale, lo stesso che vedete campeggiare svolazzante lassù), un cartone animato che andava in onda in quel periodo: "Il moooooooooondo è miiiiiiiiio!!!".
Se solo fossi stato meno timido di quanto ero l'avrei fatto sul serio. La ruota anteriore della bici si deformò, ma la cambiai e quella bici dovette subirne ancora parecchie.
Proprio la mia timidezza mi spingeva, talvolta, a starmene chiuso in casa a fracassarmi di fumetti.
Non che mi dispiacesse, anzi.
Ora che ci penso, cominciai a sfogliare Topolino ancora prima di imparare a leggere.
Ci capivo poco, quel poco che si può dedurre da un fumetto in quanto bimbetti in età prescolare e quindi analfabeti, ma mi faceva ridere lo stesso.
Rammento una storia - avrò avuto quattro anni, non di più - in cui a Gambadilegno scoppiava in mano un candelotto di dinamite con cui avrebbe voluto fare esplodere Topolino e le risa che quella striscia mi fece fare con gran precisione (mia madre che mi guardava stupita, mia cugina Cristina davanti a me, altrettanto stupita, il delizioso panino al salame che stavo mangiando: tutto è accaduto ventotto anni fa, eppure sembra ieri).
Quando cominciai a leggere convinsi mia madre a comprarmelo con regolarità.
Che pacchia, che esperienze!
Leggere ''Topolino'' mi coinvolgeva in modo profondo, così come un adulto si emozionerebbe leggendo un ottimo libro. Ma non un libro qualunque, uno di quelli che si attagliano così tanto alla tua persona che sembrano essere stati scritti per te.
È strano, ma, davvero, la lettura di ''Topolino'' fu, per me, e non una ma più volte, un'esperienza intensa e coinvolgente.
Perfino paurosa; dipendeva da quello che stavo leggendo.
Chi di voi si ricorda "I Classici" e l'adattamento topoliniano della Mondadori de "La Divina Commedia" verosimilmente può farsi un'idea di quanto sto dicendo.
Ve lo ricordate quel diavolaccio che, nel girone dei golosi, sulla groppa di un dannato, gli urla: "O di riffa o di raffa mangerai!"?
Il diavolo torturatore ha, tra le mani, quella che sembra un'enorme siringa da pasticcere e l'evidente intento di infilarla nel retto del dannato. Un'immagine terribile, sia che contemplarla sia un bambino sia che a guardarla sia un adulto.
O quel canto in cui Topolino incontra quello che era stato il suo maestro e si sente dire "Predicavo bene e razzolavo male", con questo, in sostanza, sentendosi dire che in vita era omosessuale?
Non che allora l'avessi capito, non esageriamo.
Quel fumetto è quella che oggi definiremmo un' "opera a più livelli di lettura", ed io all'epoca ero abbastanza sveglio, ma non così tanto.
D'altra parte, solo un adulto può capire che, con quella frase, il suo ex-maestro di fatto sta facendo riferimento alla sua omosessualità.
Dal suo atteggiamento (lo accoglie sbaciucchiandolo) e dalla sua frase un bambino non può desumere nulla, ma un adulto sì.
Un altro momento molto bello di quel fumetto è quando i bambini che sono all'Inferno sotto forma di alberi (i quali poi vengono tagliati e trasformati in banchi di scuola) a causa del peccato di monelleria, ascendono in Paradiso, grazie all'intercessione di una fatina buona.
Forse è questo che mi fa pensare con particolare nostalgia a quella storia: il fatto che sia contestualmente capace di farti paura e stupirti, di orripilarti e darti conforto.
Sempre a proposito di Topolino, ricordo che in casa avevamo una scala metallica verde, alta sui due metri: il massimo era accoccolarsi sull'ultimo gradino a leggervi "I Grandi Classici", collana derivata da "I Classici", il cui numero 1 è proprio quello in cui ci sono la parodia dell'Inferno di Dante e del "Faust" di Goethe.
Rammento che ne scendevo solo quando il male di schiena e l'intorpidimento si facevano insopportabili.
Ma non leggevo solo fumetti.
"Dalla Terra alla Luna" mi fece fare, ricordo benissimo, un viaggio mentale di un nitore allucinatorio.
Fui Barbicane, fui Stuyvesant, vidi il velluto del rivestimento interno del vettore che li portò sulla Luna, svenni a causa dell'accelerazione provocata dall'esplosione che li sparò sulla Luna, e, tutto questo, senza l'ausilio di alcun enteogeno.
Ricordo anche che quando lessi della sfida tra Barbicane e Stuyvesant (l'uno produttore di proiettili e l'altro di corazze), e della sconfitta di Barbicane, l'immagine dei proiettili a punta da questi concepiti che si piantavano come spilli nelle corazze di Stuyvesant mi si definì in testa con precisione filmica.
Tant'è che, ancora adesso, a distanza di venti e più anni, ogni volta che penso a "Dalla Terra alla Luna", la prima immagine che mi viene in mente è proprio quella.
Forse il bello di quel periodo della vita è esattamente quello: essere come drogati, senza essere coadiuvato da stupefacente alcuno.
E, forse, questa è una delle ragioni che poi ha portato me a diventare quello che ora sono (e che sto cercando di smettere di essere): il craving di emozioni forti.
Per chi non lo sapesse, e termini come heavy abusing, addiction, uso compulsivo, e, appunto, craving non significassero niente o riuscissero fastidiosi ed un filo affettati, si può approssimare con un buon grado di precisione dicendo che craving è sinonimo di fame tossica.
O, meglio, di fame di tossici (nel senso delle sostanze, non in senso cannibalico).
In sintesi, sto usando una terminologia un po' fighetta e autocompiaciuta per dire che il tedium vitae mi ha sempre fatto essere, nei riguardi delle esperienze foriere di emozioni forti, peggio d'un drogato in piena sindrome astinenziale.
Molti penseranno che sia squallido (e forse lo è davvero), ma è probabile che una delle ragioni che mi ha portato al perseverare nelle cattive abitudini sia stata la necessità di stemperare il senso di mancanza e aridità che sentivo derivarmi dall'aumento di consapevolezza, man mano che crescevo.
Mi basta pensare alle mie prime esperienze con l'hashish (che, fra parentesi, come si evince dalle parentesi, ora mi ripugna), in cui quello che più mi divertiva del farne uso era il senso di stupore allucinato che montava su dopo poche boccate.
È paradossale rilevare come poi il prolungarsi delle abitudini pericolose e cattive succitate porti all'apatia interiore e ti allontani ancor più da quelle sensazioni che andavi inseguendo.
O forse no, forse è solo la legge del contrappasso, che chiede il suo pagamento.
Pazzo, mi viene da pensare, da ragazzino ero pazzo.
Ma mi divertivo, cazzo se mi divertivo.
Il periodo delle medie in particolare fu uno dei più piacevoli della mia vita.
Vivevo in un quartiere di disadattati e criminali, ciò però non mi impedì di passare pomeriggi follemente divertenti.
So che sembra che continui ad esagerare, ma non è così: il quartiere Aurora, il mio quartiere, quando io avevo tredici anni, era quello, in Torino, col maggiore tasso di criminalità (maggiore perfino di quello dell'allora famoso a livello nazionale quartiere delle Vallette).
Mi sembra ieri quando staccarono la testa a un tunisino a colpi di pistola perché aveva cercato di infilarsi nel business della droga.
Mio malgrado, dovetti quindi adattarmi.
Non fu facile, anche perché congenitamente ero un bravo ragazzo, ero relativamente più intelligente della media e mi piaceva ottenere buoni voti, ma ce la feci.
D'altra parte, era una questione di sopravvivenza: o diventavi un animale pure tu o ti ingoiavano e ti sputavano a terra smozzicato peggio d'un bastone di liquirizia parzialmente usato (sì, sono così vecchio che quando ero un pischerlino le erboristerie vendevano la liquirizia in bastoncini, quindi, anche se vi suonerà strano, la metafora ci sta). In verità, forse mi adattai fin troppo bene: ricordo che, in un mattino della mia terza media, ce la prendemmo con un certo Bedduscio e io mi accanii così tanto e fui così bastardo da incastrargli la testa sotto un termosifone. L'atto fu deplorevole in sé, ma a renderlo ancor più deplorevole vi fu il fatto che io ai piedi portassi anfibi.
D'altra parte, anch'io fui vittima di non pochi e violenti soprusi, ma questa è 'n'artra storia, e non è mia intenzione narrarla ora, e, soprattutto, non è mia intenzione giustificarmi.
L'ambiente può correttamente e con efficacia formare, ma in una scuola in cui una targa con inciso sopra Homo Homini Lupus sopra l'ingresso non avrebbe stonato, può con altrettanta efficacia plagiare e rendere crudeli.
Mi spiego meglio, e di nuovo ribadisco il mio intento di non giustificarmi: se durante la ricreazione la tua preoccupazione è che in corridoio non ti portino via i soldi della merendina, o la merendina, o i soldi per la merendina e quelli che hai in più e la merendina con una scacciacani modificata che a distanza ravvicinata può farti male appena meno di una pistola vera, il tuo sistema di valori se ne va a merda.
Allora avevi tre possibili opzioni: una, la prima, essere vessato per tre anni, due, la seconda, vessare per tre anni, e tre, la terza e la mia, vessare solo quando dovevi e difenderti solo da chi potevi.
Da quelli da cui non ti potevi difendere nemmeno dovevi pensare a difenderti, perché loro picchiavano come adulti incattiviti, mentre tu eri un cacasotto esattamente come quelli che accettavano di farsi vessare sistematicamente e gli unici vantaggi tattici da te posseduti erano una certa cinica astuzia e l'arte della mimesi.
Anche se di fatto nacqui nerd, imparai con facilità che dopo la seconda forte sberla non ne sarebbe arrivata una terza, ma denti rotti e punti di sutura, quindi mi collocai in quella terra di mezzo in cui stanno quelli che tacciono quando devono e prevaricano quando possono.
E' terribile prendere atto del fatto che quando il bullo sei tu la violenza diventi gioco e ogni connotato negativo che gli avevi dato quando ad essere bullato eri tu semplicemente svanisca, come per magia, e l'omertà divenga la regola di base che norma le dinamiche di classe e di corridoio.
Ritornando a ciò che stavo dicendo, ed uscendo dall'epica Western: mi sovvengono alla mente pomeriggi passati a studiare dalle due alle tre, e a giocare dalle tre alle sette.
I miei amici erano M. Provola, detto "Caciotta", G. Badìa, detto "Cefalo" e P. Gerardi, detto "Pipino".
Ognuno di questi epiteti ha la sua storia.
Provola venne ribattezzato "Caciotta" senza un motivo in particolare, solo per evidenti motivi di assonanza casearia; Badìa venne ribattezzato "Cefalo" perché la nostra insegnante di italiano in prima media (evidentemente una grande esperta del metodo Montessori), sentendolo in difficoltà mentre leggeva un brano di Calvino lo apostrofò in quel modo; Gerardi divenne "Pipino" perché...
...Perché io sono una puttana dalla bocca larga.
Capitò che, come molti a quell'età, io e P. Gerardi ci trovassimo assieme più volte a fare una di quelle simpatiche gare tipo "chi viene più lontano": fin da subito notai che aveva il pene non molto grande e, invece di tenere la bocca chiusa come avrei dovuto fare, lo sputtanai ai quattro venti.
Sono passati vent'anni, e, ancora oggi, faccio dei terribili sogni, imbevuti di senso di colpa e angoscia, con P. Gerardi protagonista: ho razionalizzato in proposito e mi sono reso conto che se questo accade è perché, svergognadolo da ragazzino, quasi gli provocai un esaurimento nervoso.
È una cosa da uomini (vista l'età dei soggetti coinvolti, "maschi"): se iniziano ad apostrofarti con improperi tipo“pipino","cazzo piccolo", "mignolino" o "minchia corta”che sia, può essere una rovina.
In una scuola come la mia, dove potevi essere marchiato a fuoco come ricchione in un battibaleno, poteva essere una rovina ancora più grande. Si doveva essere virili, mica cazzi. Fin dalla mia prima media, in uno dei bagni degli uomini c'era una freccia, che indicava un cerchio, dentro il cerchio c'era una colata giallognola e, sotto, vergata con soddisfazione, c'era la parola "sborra".
Non scherzo.
Quanto al fatto che chi avesse scritto "sborra" fosse stato sommamente soddisfatto (ma non per il piacere orgasmico appena provato, proprio per il gesto in sé), era cosa che si sarebbe potuta dire lapalissiana. La freccia enorme, il cerchio preciso, la grafìa sicura erano tutte prove a sostegno della tesi in questione.
Nessuno, ovviamente, durante i miei tre anni di medie, si prese la briga di pulire. Per quanto ne so, l'opera pop in questione potrebbe essere ancora lì.
P. Gerardi però mi voleva talmente bene che non mi disse mai nulla, malgrado si dovesse essere reso conto che la notizia dovette essersi diffusa a causa mia. Può sembrare strano, ma, visto che anch'io gli volevo un gran bene ed era, allora, il mio "migliore amico", questa è una cosa che mi ha sempre fatto soffrire di brutto.
Avrei preferito se si fosse preso la sua vendetta, e, ancora oggi, se lo incontrassi per strada, e, in memoria di me (meglio: della colossale merdata che gli feci), mi appioppasse un cazzottone in faccia da spaccarmi qualche dente, non lo biasimerei minimamente.
Adesso, però, torniamo alle facezie: uno dei nostri passatempi preferiti era fare a botte.
Ma non "fare a botte, tanto per fare a botte": non era raro che tornassimo a casa lividi, tumefatti e graffiati.
Un pomeriggio, e lo rammento come fosse ieri pomeriggio, in casa Caciotta, trovammo un materasso arrotolato e fermato con delle corde da tapparella: in un nonnulla divenne una super-armatura, dentro cui a turno ci infilammo per poi farci prendere a calci e a pugni, felici come delle pasque.
I colpi erano attutiti, ma, ogni tanto, qualcosa filtrava.
Nessuno se ne lamentava, però.
Lamentarsi era un'altra di quelle cose da ricchione che non ti potevi permettere.
Il passatempo preferito numero due era andare in giro in bici.
In realtà, Cefalo e Caciotta erano piuttosto poveri, quindi più che un "andarcene in giro con le bici", era un "andarcene in giro con la bici, e lo skateboard".
La mia bici, per la precisione, un'orrenda Graziella "operata" e il mio skateboard, un incrocio tra un'asse da stiro e un fuoristrada.
Se vi state chiedendo cosa potesse essere una Graziella "operata", posso soddisfare la vostra curiosità dicendo questo: era un ibrido tra la Graziella (la famosa, o famigerata, se preferite Graziella, la bici da passeggio che negli anni '70 ogni pùbere o adolescente femmina avrebbe voluto avere), e una bici da cross. Prendevi le ruote di un bici da cross e le mettevi su una Graziella: ecco che la bici più frocia del mondo diventava improvvisamente un esempio eccelso di bike-design.
Lo skateboard invece era caricaturale in sé per sé: rifilatomi in regalo come "skate da professionisti", di fatto era un enorme catafalco, pesante non meno di cinque chili e con delle ruote che più da pattini a rotelle sembravano da sterrato. Una volta mi ci lanciai sopra uso skater, ma dato che, come avrete capito, sono coordinato come un parkinsoniano, il risultato inevitabile fu quello di fargli prendere il volo, e, per poco, di non sopprimere il bellissimo cocker nero di un altro mio compagno di classe di allora, Farinacci (che, rammento ora, aveva occhi azzurrissimi e un naso enoooooorme, ma non so perché ve lo stia dicendo, e intendo che il naso enorme fosse di Farinacci, non del cane).
Proprio grazie al particolare delle ruote cross della Graziella transgender e delle ruote da rally dello skate-catafalco potevamo andare quasi ovunque. E quasi ovunque andavamo, compreso il Parco della Colletta, che per quanto fosse frequentato da pedofili evitavamo più che altro perché i suoi sterrati erano estenuanti perfino per il nostro uomo-cavallo Cefalo.
Con questo sistema (bici + skate al traino) non si poteva che andare in giro in tre, e lo schema, grossomodo, era sempre lo stesso: Cefalo alla guida della Graziella, io ritto in piedi sulla ruota posteriore e Caciotta o Pipino sul mio skate, trascinati da me. Anche i tragitti si ripetevano, perché alla fine quello che contava davvero era potere sfrecciare come missili sulla stessa discesa che mi fece rovinare come un fesso di cui ho parlato ad inizio di racconto.
Ho ripensato da adulto a quei pomeriggi, e la cosa che con maggiore immediatezza mi è saltata agli occhi (della mente) è che Cefalo doveva avere una forza mostruosa. Letteralmente mostruosa: poteva portarci in giro per ore senza stillare nemmeno una goccia di sudore.
Appropò di quei giorni: una piccola divagazione ("n'artra"?, direte voi: massì, tanto è l'ultima...).
In quel periodo lì, il mio triennio alla Giuseppe Giacosa, non saprei dire quando con esattezza, forse poco prima dei miei 13 anni, c'era un gatto nel quartiere che tutti sapevano essere un pericolo pubblico.
Si chiamava "Poldo", ed aveva confitto in un occhio un rametto di legno.
Già all'epoca, benché fossimo ragazzini, ci chiedevamo come fosse possibile che un'infezione non lo uccidesse.
Non ricordo di preciso quanto sopravvisse così ridotto, certo è che per essere diventato una leggenda di quartiere qualche mese almeno dovette resistere.
Quel rametto, però, una cosa, con precisione chirurgica, gli aveva fatto benissimo: lo aveva reso del tutto pazzo. Una bestia, un animale schizzato, un agglomerato di pelo ed ossa furioso.
Non ho mai visto un gatto comportarsi come Poldo (il nome gli derivava dal fatto che prima dell'incidente era una palla di lardo, e non ostante, dopo essersi accecato, perse tutti i suoi chili in sovrappiù, rimase comunque "Poldo"): non era semplicemente fuori di testa, era qualcosa di più; poi vi dirò e capirete.
Ora che ci penso, è strano che con l'inventiva che ci trovavamo non gli avessimo dato un altro nome. Ribattezzavamo ogni tre per due qualunque cosa, ma Poldo non fu toccato dalla nostra verve di giovani buzzurri scalmanati.
Il micio-istericus soffiava contro tutto e contro tutti, manco fosse stato una tigre incazzata e non un gatto guercio e, ormai, rachitico.
"Cattivo"?, "una bestia", "uno schizzato"?
Esagerazioni, penserete voi?
Mah...
Un giorno, e qui mi riaggancio a quel misterioso ed enfatico mio "poi vi dirò e capirete" di poco fa, mentre eravamo in giro in bici, Badìa si incroccò contro non so quale ostacolo, ed io, che come sempre ero in piedi sulla ruota posteriore della mia Graziella, presi il volo stile Lindbergh.
Combinazione, Poldo era a pochi metri da noi.
Ricordo con chiarezza estrema che il primo pensiero che mi passò per la testa, quando mi trovai a fissare il cielo, consapevole di non essermi fatto nulla, fu: "Non so come, ma non mi sono spaccato la schiena. Non so chi devo ringraziare, ma se dopo un volo del genere non mi sono fatto nemmeno un graffio, allora gli Angeli Custodi esistono".
Avevo la testa all'indietro, stavo sghignazzando tutto contento quando vidi Poldo che caricava.
Giuro su quanto ho di più caro: quel gatto fottuto voleva saltarmi in faccia.
Il perché doveva saperlo solo lui: io ho fatto solo delle ipotesi.
Dubito che in me avesse visto un enorme salsicciotto o, comunque, qualcosa di commestibile: oggi come oggi mi vien da credere che la pazzia l'avesse fatto tanto sbarellare da portarlo a fare il male in onore del male.
Mi spiego meglio, come promesso, ma siamo nel campo della speculazione pura: mettetevi nei panni di un gatto sopravvissuto un paio di mesi con un rametto confitto in un occhio, a ravanargli dritto dentro il cervello.
Quanto sareste incazzati, voi, se foste sottoposti ad una tortura simile e non ci poteste fare un cazzo di niente?
Non preghereste per diventare il gatto di Satana?
Il suo preferello, quello cui Il Principe degli Inferi fa i grattini al cervello con quel cazzo di bastoncino che gli ha orrendamente rovinato gli ultimi mesi della sua esistenza terrena, ma che nell'oltretomba sarebbe come una sorta di crivello da fargli fare fusa che provocherebbero terremoti disastrosi in Giappone?
Non vi immaginereste a rifarvi le unghie sui culi di quegli stronzetti di nullafacenti adolescenti che come degli idioti se ne vanno in giro sempre per le stesse strade di quartiere a dire sempre le stesse cazzate sulle tette di quella porcona di Cinzia, a pregare che Tati ti faccia una sega sotto il banco prima della fine dell'anno, e non scendono da quell'accozzaglia immonda fatta di quegli aggeggi con le ruote che tanto piacciono alla loro specie, nata per essere schiava e schiava effettiva della Dea gatto Bastet, solo per disegnare cazzi rispettando l'anatomia umana sulla abbondante cartellonistica viaria, perché "la gente i cazzi non li sa disegnare, e l'arte del disegnare cazzi è una roba seria"?
Sì, preghereste per fargli a fette i culi, e se uno di loro cadesse per terra davanti a voi, ostentando la faccia al posto del culo, altro non vorreste che giocargli una partita di tris in fronte.
Almeno questo io penso, oggi.
In ogni caso, fu Cefalo a tirarmi su di brutto ed evitarmi così che quel felino cecato e bastardo mi cavasse gli occhi.
Il sollevarmi non lo fece desistere. Quel bastardo peloso continuava non solo a guardarmi male (eh!), ma a puntarmi come se mi avesse voluto sfregiare, non mangiare. Era talmente preso dai suoi intenti che, per farlo smammare, dovemmo tirargli addosso diverse manciate di pietrisco.
Se ne andò col pelo ritto e soffiante, ma, soprattutto, con un atteggiamento che sembrava indignato.
Ricordo che, dopo averne fatta l'imitazione, soffiando e sputacchiando e parlando in un incrocio tra il gattese e lo slang del mio quartiere (un ibrido tra il piemontese e diversi dialetti meridionali, il cui emblema ed epitome massima può sintetizzarsi nell'evergreen "Minchiadiofà"), ridemmo come matti per cinque minuti buoni.
Ecco com'è cambiata la mia percezione del mondo, ed ecco quanto sono cambiato io.
Rivendendo con gli occhi di oggi quel particolare giorno di ieri, tutto vira di tono.
Proprio ieri (ed ora per ieri intendo il prosaico e banalissimo ieri), quando ancora nemmeno sapevo avrei scritto Il Ricordante, che ho tirato giù questo sabato notte estatino di getto, alla folle velocità di non so quanti cazzo di A4 l'ora, ma forse 3, proprio ieri, mentre la mia mente vagava lungo altri, trascendenti e ben più pesi percorsi, ho visualizzato quel particolare episodio della mia vita, e mi è venuto di pensare a presagi funesti e al Male, e un peso greve mi ha afflitto il cuore.
Il Male (così come si evince dalla maiuscola, il male con la "m" majuscola): forse sono talmente oppresso dal mio attuale stato che ho bisogno di alibi, e quindi eccomi a qui, a cercare fuori quel che invece è dentro me...
Machecazzo, prima o poi tutto questo finirà, l'ho scritto in apertura di racconto, e ancora ci credo.
La leggerezza di quei giorni odorosi di Staedler, matite Fabri HB, blocchi A4 Fabriano, scarpe da ginnastica Adidas, kimono da Judoka, grasso per catene da bicicletta e cuscinetti da Skate, non se ne è andata per sempre 'affanculo: l'ho vissuta con un tale innocente e assieme criminale trasporto che è tutt'altro che persa per sempre... Di fatto è ancora qui, impressa in modo indelebile nel mio cuore.
Quindi...
Quindi adesso sdrammatizziamo un'altra volta, che mi son fatto venire voglia di toccarmi i coglioni, e non come prodromo di una sega, ma con valenza apotropaica.
Ah, se potessi viaggiare nel tempo!
In questo periodo sto leggendo "Tempo" di Clifford A. Pickover: a detta di questo strano scienziato scrittore, puntuale tecnicamente quanto atipico nel delineare trame fantasticamente bizzarre, i viaggi nel tempo sono possibili (in effetti, sulla base delle formule della Relatività Speciale, ciò che salta agli occhi anche di un profano come me è che, con velocità ultraluminali, la grandezza "t" diventa negativa... Peccato solo per le tremende energie che ciò richiederebbe, ma, soprattutto, peccato per l'apparentemente invalicabile limite della velocità della luce).
Di certo, se si potesse, un paio di cose le cambierei...
O, magari, mi basterebbe tornare ad uno qualsiasi di quei pomeriggi.
“La felicità assoluta”, ho scritto in un altro mio racconto, "è propria degli idioti"; però, cosa non darei per tornare a quella spensieratezza, a quella levità d'animo e di vedute...!
Cosa non darei per tornare a sapere chi cazzo sono e cosa voglio da me stesso, tornare ad avere coscienza di chi sono e di dove sto andando!
Quanto bello sarebbe tornare a quei momenti con una "Macchina del Tempo"!
E adesso?
Adesso, beh, non so come chiudere: questo vagare ondivago nei miei stessi ricordi è stato tanto appagante quanto disorientante.
Il "blocco dello scrittore" in questo periodo si sta facendo sentire più che mai, ma non è solo quello.
Al "blocco dello scrittore" (di nuovo tra virgolette, perché bisogna credersi scrittori, per patire delle loro nevrosi, e io scrittore proprio del tutto non mi sento, né, per pudore, mi ci voglio sentire), s'aggiunge la paura di non riuscire ad uscire dalla situazione incasinata in cui sono.
Al "blocco dello scrittore", per me fatto nuovo, poiché, a dispetto di tutte le schifate che posso avere fatto, non ho mai avuto problemi col gentil sesso, si è aggiunta la paura di finire la mia esistenza come un orso solitario e onanista (vabbé, Onan non era dedito all'esercizio dell’amore solitario più di chiunque altro, ma ci siamo capiti)...
Massì, facciamo così e 'fanculo tutto e tutti: oggi concediamoci alle cattive abitudini per l'ultima volta, ci penserà il "down" del dopo a farmi tornare a quel "sense of wonder" che dico mancarmi tanto.
FIN.
Vecchio sola, vedo con piacere che la tua tastiera ha riattivato il magnetismo verso i tuoi polpastrelli. Quindi presumo che anche la "pellaccia" stia in fase riseup. Sono troppo preso dall'attivismo per le Liberta' in Rete per fermarmi adesso a leggere per una delle mie sadiche recensioni. Ma ti prometto, anzi "minaccio" che torno! Per quel che mi riguarda ultimamente ho fatto un'animazione ispirata a "la donna 100 teste" di Max Ernst e ho "lanciato" un'eresia per procurarmi un Anatema per essere sbattezzato senza formalita' burocratiche. A presto.
Il Prozio
Scritto da: Veleno Sereno AKA Il Prozio | 22/02/09 a 03:37
Caro ziastro, quest'animazione s'ha da vede'!
Quanto prima!
Mandami il link, che Max Ernst mi ha sempre appiaciuto molt'!
Cambiando + o - discorso, o letto le tue e-mail personali sul futuro della rete, e, cazzarola, se c'è da vederla buia...
Cmnq, ti aspetto (aspetto cioé che tu mi legga), ma, in realtà, non c'è "niente di nuovo sotto il sole"...
"Il ricordante", qui ri-postato, è un brutale atto di riciclaggio!
;-)
Ciao,
Davide.
Scritto da: Asmodeo | 23/02/09 a 17:03