- § 4
Delle esplosioni lente gli rimbombarono tra testa e stomaco, dipanandosi ad ondate che parevano scosse telluriche.
A stare peggio, tra testa e stomaco, però, era il suo stomaco.
Nello specifico, fu come se gli fosse implosa una stella in pancia, dando vita ad un buco nero, e da esso irradiassero onde gravitazionali così potenti che presto si sarebbe disgregato. L'allucinazione che ne seguì fu netta come un cortometraggio proiettato all'interno del suo cranio.
“Mi sento come se un sole nero mi fosse nato dentro”, disse traducendo in parole le immagini mentali che erano appena terminate.
Stavano cominciando le avvisaglie peggiori dell’astinenza, ma a farlo stare male sul serio, a fargli sentire quell'ardore da singolarità gravitazionale, era l’idea dei suoi dieci assegni da cinquemila euro l’uno nelle mani di quei bastardi patentati...
“In realtà, sarebbe più giusto dire che ‘Mi sento come se un sole mi fosse morto dentro’”, soggiunse, ed ebbe un cònato così forte che poco ci mancò che vomitasse sul serio. E lo sapeva: se avesse cominciato a vomitare, avrebbe, di lì a 36 ore, finito col defungere, espellendo le sue stesse interiora.
L'idea della Morte, che in lui di regola corrispondeva ad un nero nulla e che, in altre situazioni, non aveva mancato di affascinarlo come lo avrebbe attratto una bellissima troia assassina, in quel momento non riusciva che ad atterrirlo mostruosamente.
Si avviò caracollante verso l’uscita, passando per la sala d’attesa.
Strega non c’era più.
Gli venne in mente la receptionist, e subito si diresse verso il suo ufficio.
Al di là della rota, solo in quel momento stava davvero comprendendo quanto Zondyke gli avesse detto (“Una cura sintomatica?! A sue spese, perché lei è causa del suo male?!”), e, mentre camminava, decise, anche se inconsciamente, di avere bisogno di qualcuno con cui prendersela. Qualcuno da insultare, qualcuno da cui pretendere la restituzione di assegni e soldi, sapendo che non sarebbe servito a un cazzo, qualcuno da cui farsi dare qualche litro di Xanax, qualcuno da usare come arma di ricatto, qualcuno da minacciare, se fosse servito, anche fisicamente, pur di potere riparlare con quel demente psicotico di Zondyke, qualcuno...
Arrivò alla reception, ma anche quella era vuota.
“Che cazzo…”, borbottò, ritornando sui suoi passi. Il corridoio che aveva percorso era davvero lungo, ma se da quando era entrato in quella clinica la quasi totale assenza di suoni gli era parsa fin da subito anomala, ora l'ambiente era così silente che, complice l'arredo dal design asettico, si sentì come il protagonista inconsapevole di una pellicola di Truffaut. "Che cazzo!", urlo', "che sta succedendo? Receptionist?! Infermieri?!, Dove siete?!", grido' ancora, ma non ottenne alcun risultato.
Rientrò in sala d’attesa, ormai deciso a fare irruzione dal dottor Zondyke (se dottore era) anche se non gli avessero aperto le porte, e dirgli, che no, la terapia propostagli non gli andava affatto bene, quando notò un particolare strano.
La sedia imbottita su cui Strega era stato prima seduto a delirare era leggermente inclinata a sinistra.
Incuriosito, si avvicinò.
Dapprima, non capì - come poteva essere inclinata a quel modo, quando ancora aveva tutte e quattro le gambe che parevano integre? - poi un altro fatto distolse la sua attenzione.
Per terra, accanto alla poltrona, c’era una medaglia di notevoli dimensioni.
Pareva d’oro.
La raccolse e ne contemplò il fronte.
La prima cosa che capì, quando la ebbe raccolta, fu, vedendo l'emblema dei 24 carati su 24, che era davvero oro, e oro puro; poi, dal momento che ne aveva anche lui una simile, ma assai più piccina, che dovesse trattarsi di un regalo di battesimo. Quel mostro che aveva tra le mani doveva perlomeno pesare mezza oncia. Un'ostentazione di ricchezza, tipica di una famiglia meridionale, pensò.
L’immagine che recava sopra sembrava una riproduzione, effettuata con la tecnica del bassorilievo, della “Madonna con bambino”, di Botticelli.
La voltò, e lesse l’iscrizione: “Piccolo amore mio, benedetta sia la tua venuta al mondo. Che tu possa avere una vita felice”.
Dopo c’era una dedica (“A Marco”, diceva), e, sotto ancora, una data di nascita: 04/08/1962.
Provò due choc contemporaneamente, e un’esclamazione gorgogliante gli morì in gola.
Il più forte gli derivò dal capire che Marco altri non era che Strega; il secondo, non tanto da meno del primo, gli derivò dalla data, in sé per sé. Strega, cos'era? Marchigiano? Ma il suo cervello non ingranava a comando, andava dove cazzo gli pareva, e il senso di torpore che lo stava avvolgendo, accompagnato da un forte formicolio all'estremità delle dita, gli impediva di concentrarsi.
D'improvviso, come se un interruttore invisibile gli fosse scattato in testa, davanti agli occhi della mente gli apparvero con nitore allucinatorio quei due minuti in cui, anni prima, su un bus pubblico, si era imbattuto in Strega e in quella che doveva essere sua sorella.
Gli diceva che s’era ridotto una merda, ma che, più merda di lui, fosse “quella schifa di abruzzese con cui aveva preso a convivere” e lo chiamava, appunto, Marco. "Uhm, schifa di abruzzese non depone a favore dell'origine meridionale", disse ad alta voce, e si spaventò rendendosi conto di quanti toni essa fosse calata.
E, poi, c’era quella data.
Era una combinazione assurda: Marco, alias Strega, alias l’uomo-fogna, alias il tossicomane alienato, era nato esattamente dieci anni prima di lui.
Si guardò attorno con aria colpevole, sia perché si sentiva osservato, sia perché stava ripensando al verso da animale braccato - no, meglio, da bestia finita in trappola - che gli era quasi uscito dalla bocca, sia perché la tremenda sonorità che la sua voce aveva cominciato ad assumere era poco e niente un buon segno.
La cosa più estraniante era però un’altra: aveva davanti a sé la testimonianza incontrovertibile che Strega non era nato così, ci era diventato.
Era assurdo, specie in considerazione del suo passato e delle puttanate che Andrea sapeva che Marco avesse commesso (e che, nella Torino Tossica, ne avevano fatto una leggenda urbana), ma rendersene conto era agghiacciante.
Dunque era nato da uomo e da donna, ed era nato umano.
Era difficile, arduo, quasi impossibile ammettere che l’individuo in cui si era da poco imbattuto, prima di divenire una specie di Ultra-Junkie dello Spazio Profondo, fosse stato un uomo.
Un bambino, un bambino con una madre che potesse averlo allattato, coccolato ed addirittura amato, poi, pareva del tutto impensabile. Con quella medaglia d'oro incredibilmente grande al collo, poi, che testimoniava in modo definitivo a favore del fatto che Strega fosse nato ricco.
In effetti, Andrea, che pure apparteneva a quel mondo, avrebbe pensato che le creature come Strega fossero dei mostri che si riproducevano per partenogenesi, del tutto alieni a parentele d'ogni grado e nati adulti.
Cazzo, qui non si parlava solo di un uomo che fosse evoluto in tossico, si parlava della-mutazione-di-un-tossico mutante...
E, invece, Strega era stato un bambino, come lui, come tutti...
Una risata acuta (da pazzo), gli partì dalla bocca, manco fosse stata una fucilata.
Si portò involontariamente la mano destra alle labbra, ma, poiché era già considerevolmente sconnesso a causa dell’astinenza, si rifilò un’involontaria sberla sul muso.
Un verso assurdo
(Skkraaarrrfff!)
fu la prima inevitabile conclusione, la seconda invece fu un’ulteriore risata tanto sgangherata che, per evitare di cascare a terra, dovette accovacciarsi.
Gli occhi gli lacrimavano copiosamente, e, sempre più, aveva l’impressione di essere osservato.
La voglia di andarsene (“Andare ad acquistare”, pensò), non prima però di avere mandato ‘affanculo Zondyke e rescisso il contratto che aveva stipulato col Centro, lo indusse a riprendersi.
Perché sì, aveva deciso: si sarebbe disintossicato in qualche altro modo.
Un modo doloroso e devastante, magari, ma con quella gente non voleva avere a che fare.
La vista gli si schiarì, e, per puro caso, notò come mai una delle quattro gambe della sedia pareva essere stata fagocitata dal pavimento: si era spezzata, ma dalla posizione da cui lui l'aveva osservata si era generata un'illusione ottica che la faceva parere confitta nel pavimento per un paio di centimetri, ma sana.
"Ma come cazzo ho potuto pensare che la gamba di una sedia potesse avere forato del parquet? A quel modo, poi?", si disse.
In ogni modo, qualcosa gli sfuggiva.
Delle righe - dei solchi che sembravano essere stati prodotti dal vomere di un aratro, a dirla tutta - si dipanavano da ciascuna delle gambe della sedia.
“Che strano, che cacchio gli è venuto in mente di fare, a Strega? Di lanciarsi a peso morto di schiena sulla sedia?”, pensò poco convinto.
Una cazzata del genere, visto il soggetto, poteva pure starci...
Ma...
No.
Capì al volo quanto era accaduto, ma non voleva accettarlo, anche perché le implicazioni non gli piacevano affatto.
“Lo hanno fracassato di botte... L’hanno pestato da seduto, erano almeno in due, e uno dei due gli si è buttato deliberatamente contro”, soggiunse mentalmente a sé stesso.
E la sedia, inevitabilmente, aveva inciso il parquet, spezzandosi in quell'anomalo e all'apparenza invisibile modo.
Spinto da un impulso irrazionale ma preciso, andò dietro il banco della receptionist.
Quanto trovò gli fece, nel contempo, provare un’esaltazione alla Sherlock Holmes e una fitta acuta di panico: sul banco c’erano gli involucri di non una, ma di due siringhe (le Terumo, per la precisione, le siringhe preferite dagli agofili) e c’erano non una, ma due fiale vuote di Atropina.
"Merda", disse Andrea con una voce ora assolutamente atona.
Per capire quanto era accaduto non ci andava né uno scienziato né una persona dotata di particolare fantasia visiva, e lui era sia una persona dotata di discreta intelligenza sia una persona con una fantasia visiva molto accesa.
L’unica cosa che non riusciva a figurarsi era la bellissima, dolcissima e garbatissima receptionist-intervistatrice che sparava non una ma due spade di Atropina nel corpo di Strega.
Si domandò, con stuporecaccademico, dove potesse avergliene iniettato il contenuto.
Nelle chiappe?
Sulle cosce o sulle braccia?
Inframuscolo o per via endovenosa?
In quest'ultimo caso, in pieno collo, nella giugulare, magari?
Quell’ipotesi gli fece provare un dolore acuto, come una puntura d’ape, dove immaginava dovesse essere la vena cui stava pensando, ma, su tutto, lo spaventò tanto da nausearlo.
“Ma dove cazzo sono finito?”, disse ad alta voce, e subito si pentì.
Si massaggiò dove aveva provato dolore, vergognandosi.
L’idea paranoide di telecamere e microfoni sparsi ovunque aveva attecchito, e non sembrava intenzionata a mollarlo.
Si decise ad andare verso l’ufficio di Zondyke, ma aveva le gambe molli.
Per convincersi a muoversi dovette pensare allo spauracchio della sindrome astinenziale, che, parole sue, poche ore e “l’avrebbe disfatto pezzo-pezzo”.
Giunse alla porta dello studio di Zondyke, e bussò, chiamandolo per nome.
Nessuna risposta.
Bussò ancora, e dovette frenare l’istinto di mettersi ad origliare.
“Mr. Zondyke!”, gridò, “Devo parlarle! Ora!”.
Aveva cercato di essere autoritario, ma il risultato era stato sconfortante.
Nulla, nessun rumore.
Si concentrò, e ricordò che, alla sinistra della scrivania di Zondyke, c’era una porta.
Non era del tutto convinto dell’eventualità che Zondyke potesse essere uscito da lì, ma, bisognoso di crederci per evitare conclusioni indigeste, si avviò verso l’uscita.
Fuori della porta, sul pianerottolo, non aspettò nemmeno l’ascensore: prese le scale di corsa, e, in pochi secondi, fu fuori del palazzo che ospitava il Centro.
continua...
Ciao! Bello il seguito, come sempre scrivi benissimio...ti ho mandato un e-mail, quando hai un po' di tempo puoi andare a leggerla...Ciaoooo!!! By Marlene86
Scritto da: marlene86 | 24/11/06 a 18:57
ciao marlene...
grazie; in realtà quella che hai letto era la bozza: quella attuale è la versione (quasi) definitiva (nel senso che, da buon nevrotico perfezionista quale sono, posso anche correggermi a distanza di mesi).
grazie ancora!
ciao,
Davide.
Scritto da: asmodave | 24/11/06 a 20:23