Era il 28 Giugno del 2050.
Mentre si avvicinava al suo pingue bersaglio, gli venne fatto di pensare che erano state poche le occasioni in cui le impressioni che gli erano derivate dalla disamina dei visi altrui s'erano rivelate sbagliate. "Chi si trova ad avere una faccia a culo molto improbabilmente è un simpaticone, quindi tu, caro il mio polpettone, sarai di sicuro una frustrata di quelle che detestano tutto e tutti...", pensò Asmodeo.
Per quanto gli spiacesse ammetterlo, poiché si rendeva conto del semplicismo di un'impostazione scientifica deterministica come quella lombrosiana, spesso s'era implacabilmente basato sulle sensazioni che di primo acchito gli avevano comunicato i visi di coloro che s'apprestava a conoscere.
"Asmodeo", pensò: benché fosse il suo soprannome da così tanto tempo che molti dei suoi attuali amici nemmeno conoscevano il suo vero nome, e fosse il nome di un dèmone, solo da poco ne aveva scoperto l'etimo.
"Asmodeo": "Il rovente respiro di Dio".
Dio, pensò, forse c'entrava Dio.
O forse c'entrava il suo antagonista.
"In effetti, poiché rappresento la proverbiale eccezione che conferma la regola, probabilmente devo ringraziare il Dio maligno che mi protegge", rifletté lugubre: a ben guardare, se in faccia gli si fossero viste le stimmate della sua aberrazione, sarebbe dovuto apparire, alla meglio, come un figlio di vacca, alla peggio, come un mostro schifoso. Al contrario invece, i caratteri del suo viso erano quelli tipici dell'individuo d'indole priva di cattiveria: sopracciglia rotondeggianti, occhi grandi e trasparenti, fronte alta e naso leggermente all'insù. Nel complesso, un viso piuttosto infantile, riscattato dall'aria furbesca e attenta dello sguardo. Alla bisogna l'aiutavano una buona dose di sensualità e l'aria da psicotico di quando era incazzato o eccitato, ma tutto doveva apparire, in condizioni normali, tranne che lo psicopatico bastardo, malato ed amorale che era.
La musica pulsava forte, quindi ne approfittò per avvicinarsi ancheggiando al suo nuovo fornitore d'occhi, iniziando il corteggiamento in maniera esplicita e impudente.
Il pezzo degli Stead che andava in sottofondo - benché brutale e maniacale nella sua potenza - lo aiutò a sentirsi meno ridicolo di quanto le circostanze in altre analoghe situazioni lo avrebbero fatto sentire.
"Odio comportarmi come un cazzo di tacchino... È un peccato che non esista la possibilità d'evitare il rituale della corte... D'altra parte, sarebbe come aggirare migliaia d'anni di condizionamento... E, come se non bastasse, siamo stati noi maschietti ad averle abituate così, quindi ho poco da lamentarmi", meditò tutto intento, come sempre faceva quando pensava pensieri così seri.
"Però", pensò, "che salto... Da svogliato ed apparentemente vacuo salottiero a cacciatore con attitudini da psicanalista... Devo fare attenzione: a prendersi così sul serio, prima o poi si finisce col fare qualche cazzata... E se tu fai una qualche cazzata pocopoco ti appioppano 30 anni di carcere, o peggio...". In effetti, c'era uno spettro che aleggiava sulla sua testa: temeva che un giorno o l'altro avrebbe preso una cantonata così micidiale da costargli la vita.
Ma, al momento, una sola cosa importava: si doveva concentrare.
-"Dorotea, che dici, andiamo a bere qualcosa?", disse una ragazza dall'inquietante rassomiglianza ad un papero all'oscuro oggetto del desiderio d'Asmodeo. Era così bassa che per un attimo pensò che si fosse materializzata lì per lì.
"Dorotea? Dorotea? Non ci credo! Ho avuto un'allucinazione auditiva, non può essere!", pensò questi.
-"No, non ora Eusy, non senti quanto è trascinante questa canzone?", rispose la cicciona, e, nella testa di Asmodeo, sbocciò maligno un pensiero, come un fiore del male: "Rispose stizzita la silfide, ondeggiando mollemente il torso sottile sulle ampie anche".
Nell'incapacità di contenersi, la contemplò a bocca aperta.
Per fare un parallelo carnevalizio, la sua veste di seta aderente, di un tono acido e repellente, faceva sembrare quella d'Arlecchino scarsamente colorata.
Il peso della sua enorme capigliatura bluastra tirava all'indietro la sua piccola testa, dando l'impressione che guardare di fronte a sé invece che verso l'alto fosse impresa non poco difficile.
Non si poteva non contemplarla con stupore attonito, anche a sforzarsi di essere indifferenti.
Il tono rabbioso con cui rispose alla sua amica fece compiacere di sé stesso Asmodeo, perché la rotonda Dorotea pareva sembrare ciò che egli aveva previsto fosse; parimenti, l'etologo ch'era in lui si rendeva conto che la piccola Eusy (che stesse per Eusebia?) doveva essere la vittima di quella che sempre pareva stare definendosi come una situazione tipo: "Eusy fragile e succube, Dorotea inappagata e sotto pressione, moderna ed incompresa Cenerentola".
Se avesse potuto rendersi conto di quanto vicino era andato alla realtà si sarebbe spaventato.
Non che quella fosse la prima volta in cui riusciva a definire con precisione da magus la personalità delle sue vittime...
Di fatto, non fosse stato un irrecuperabile psicotico, sarebbe potuto essere un ottimo psicanalista.
La guardò di nuovo, e si disse: "Fa la risentita perché s'è accorta delle mie lascive attenzioni", e poco ci mancò che cacciasse fuori la lingua e si mettesse a farla vibrare nell'aria come un cobra impazzito.
Scommettendo su di sé, continuò ad avvicinarla.
Benché non si sentisse per nulla attratto da Dorotea, era stimolato dall'idea d'intortarsela, lusingarla come mai nessuno l'aveva lusingata in vita sua, abusarne sessualmente e infine torturarla.
-"Chiedo scusa, signorina, visto l'elevato livello di decibel che angustia le nostre orecchie, mi vedo costretto a tentare di conoscerla con un approccio tradizionale... Posso invitarla a bere un long drink sul terrazzo?", disse Asmodeo. Aveva il cazzo duro come un mattone, eppure, chissà come mai, stava andando in agitazione.
Non capiva perché, ma intuiva che qualcosa sarebbe andato male.
Si impose di marcare il meno possibile, e, non ostante le brutte sensazioni che lo stavano assalendo, ci riuscì.
Poi, come spesso accadeva da quello sfondato tossicomane che era, costretto a vivere alla giornata, si disse, "Que sera, sera".
In ogni caso, la strategia funzionò: Dorotea cascò nella sua trappola con tutte le scarpe, non sospettando nemmeno lontanamente con chi avesse a che a fare e il motivo reale per cui fosse stata avvicinata. Eusy invece, tanto era stupita, quasi restò per tutta la sera del rosso di cui era avvampata quando Asmodeo le aveva avvicinate.
La conversazione che seguì si protrasse un'ora abbondante, tra gli sguardi pieni d'invidia travestita da ammirazione d'Eusy e le occhiate interrogative e spaventate di Alex e Arnolfo, quella sera suoi compagni di ventura.
Non era la prima volta che i suoi amici si domandavano se l'ostentato gusto del bello d'Asmodeo fosse finito in una tazza di cesso o se, per una neanche troppo remota eventualità, egli avesse deciso d'assecondare qualche inedita parafilìa.
Tuttavia, come già avevano fatto in altre occasioni, tacettero e volsero altrove la loro attenzione.
"Non avrò alcuna pietà", si disse Asmodeo, dovendo fare un ragguardevole sforzo di volontà per evitare d'abbandonarsi ad un'esplosione d'ilarità dall'apparenza ingiustificata.
Purtroppo (o per fortuna), Dorotea s'era, infatti, rivelata un condensato anomalo di frustrazioni, desideri inappagati e odio feroce.
Odio che, ovviamente, la ragazza cercava di nascondere per prima a sé stessa.
Lo si capiva dagli sguardi storti e beffardi con cui si guardava attorno, dai commenti cattivi che faceva sugli astanti (compresa la sua amica, che se avesse anche solo sentito a mezzo le battute acide che Dorotea le riservava si sarebbe sciolta), e, su tutto, dalle risate corte e spezzate simili a latrati cui si abbandonava cercando di controllarsi, ma non riuscendoci in alcun modo.
Malgrado ciò, la voglia di ridere sguaiato di Asmodeo non nasceva da questi fatti in sé stessi, ma dall'avere colto in profondità il carattere d'una persona di cui non sapeva nulla, unicamente analizzandone l'esteriorità.
"L'abito fa il monaco, altro che cazzi", pensò Asmodeo. Dopo che si fu soffermato sull'ovvietà della massima appena elaborata e su quanto seriamente se la fosse raccontata, iniziò a concentrarsi su come defilarsi con discrezione. Il problema era non fare intendere quali fossero le sue intenzioni né a chi gli era estraneo né, soprattutto, a chi lo conosceva.
Vide Eusy parlare con una splendida ragazza e ciò gli diede lo spunto che cercava.
Bruna, quasi nuda (com'era tipico nella moda dell'estate del 2050), tatuata sulla schiena con delle linee nere che la facevano sembrare un felino, a guardarla incuteva soggezione e invidia: sarebbe stata perfetta.
La ragazza si voltò, e per diversi secondi i loro sguardi s'intrecciarono.
Per un attimo si convinse di lasciar perdere Dorotea e dedicarsi al bruno splendore che continuava con insistenza a guardarlo, ma stava troppo male per pensare seriamente ad una notte di sano amore e sfrenato sesso... Era troppo a rota, e, per i suoi standard, da troppo da tempo.
Forse addirittura 6 ore.
S'immaginò fugacemente mentre la possedeva, naturalmente da dietro; poi, i doveri del momento ("Procurarsi il tramite monetario per farsi, per la schifosa puttana", si disse), lo trascinarono altrove.
Così, decise in modo definitivo di invitare Dorotea a casa sua. Le si avvicinò guardandola negli occhi e le sussurrò, con fare sensuale e complice: "Dotty, piccola ('Arrenditi, Dorothy!' una voce furibonda gli gridava nel cervello e a stento riuscì a trattenersi dall'urlarlo), dobbiamo andarcene, però mi devi promettere una cosa... Non dovrai dire nulla ad Eusy... La vedi? Sta parlando con una ragazza con la quale ho avuto una storia del cazzo, quindi l'ideale sarebbe se ce ne andassimo ora..."
Dorotea era così eccitata che avrebbe mentito a sua madre, "E poi", si disse, "domani avrò tutto il tempo di raccontarle ogni cosa", e così, di fatto condannandosi a morte, rispose: "Certo Asm, portami dove vuoi... ". Fremeva, all'idea di fare morire d'invidia Eusebia, e ce l'aveva scritto in fronte.
"Asm? Com'è che mi hai chiamato, cicciona?", pensò Asmodeo, ma lo sapeva benissimo, era davvero stato chiamato a quel modo, e poco ci mancò che l'amazzasse lì, seduta stante.
Ma non poteva, proprio non poteva.
A fare due conti, i sintomi più violenti e incontrollabili della rota si sarebbero manifestati da lì a uno o due ore; tra le tre e le quattro ore i tremiti e la sudorazione l'avrebbero sfiancato; da lì a massimo sei ore il vomito e la dissenteria l'avrebbero liquefatto.
Non poteva, proprio non poteva.
Anzi, prima si sarebbero tolti da quella festa del cazzo e meglio era.
Per fortuna, Dorotea aveva un'auto propria, poiché, essendo Asmodeo ignavo per nascita, non aveva ancora, malgrado i suoi ventisei anni, tentato di prendere la licenza di guida.
Darsi senza fornire uno straccio di spiegazione non fu semplice; nondimeno, Arnolfo ed Alex non insistettero affatto nel chiedere chiarimenti, offrendo, pensò Asmodeo, una delle loro solite prove di furbizia e di prudenza.
Ogni tanto si domandava se i suoi amichetti si chiedessero quale potesse essere la vita segreta ch'egli conduceva, poiché in più d'una occasione questi avevano fornito prova di subodorarne taluni aspetti.
"Se proprio dovessero scoprirmi" rimuginò scherzando Asmodeo, "li posso sempre sodomizzare, torturare ed uccidere... E non necessariamente in quest'ordine".
Per evitare di mettersi a ridere senza controllo e palesare così il proprio squilibrio mentale (e questa sarebbe stata la terza volta), dovette mordersi le labbra fino a quasi farsi sanguinare.
Arrivati a casa d'Asmodeo, questi si accertò con scrupolo che nessuno li vedesse entrare: Dorotea pareva un ippopotamo in ghingheri, e chiunque l'avesse notata se la sarebbe ricordata per un paio di settimane almeno.
Una volta all'interno dell'appartamento, si accomodarono in quello che Asmodeo, tra amici, compiacendosi, menandola e vergognandosi assieme, chiamava il suo "boudoir".
Preparò due gin tonic con ghiaccio, accese l'amplificatore valvolare e mise sul Rega Planar dal piatto di cristallo un antico vinile dei Pink Floyd, UmmaGumma.
Mentre i diffusori a campo magnetico diffondevano (come solo un diffusore sa diffondere) le note di "Careful With That Axe, Eugene", iniziò a preoccuparsi di come procedere.
Finiti i primi due gin tonic ne preparò altri due, e, quando l'atmosfera fu abbastanza calda ("Rovente come la cappella di un ginecologo, direi quasi", e poco ci mancò che lo dicesse ad alta voce), andò in bagno ad allestire la siringa a ricerca delle vene automatica che lì aveva nascosto prima di uscire.
Per evitare fastidiosi inconvenienti, la caricò con due fiale d'atropina. Si rammentò di quella volta in cui questa si rivelò insufficiente, costringendolo ad utilizzare la propria sintoeroina (quella della sua dose personale).
Dimentico e spudorato, disse ad alta voce: "Operazione che fu, en passant, non solo antieconomica, ma anche parecchio spiacevole". Non poté fare a meno di ridere con nervosismo; per evitare di farsi sentire soffocò la risata con le sue stesse mani, e uno schizzo di saliva finì sullo specchio che aveva davanti.
Guardò il suo riflesso, rendendosi all'improvviso conto che forse Dorotea poteva averlo sentito, ma decise che, in ogni modo, non era importante: anche se avesse sentito parola per parola quello che aveva detto, di fatto, non avrebbe capito nulla.
Ripensò alla storia dell'atropina: in quella disgraziata occasione finì con l'uccidere la sua vittima anzitempo, poiché, costretto ad iniettargli la sua sintoeroina per farla smettere di sbraitare, le provocò senza volere una tremenda e sconnessa overdose. E sì che quella sera aveva pensato che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi (per lui)... Invece poco c'era mancato che l'arrestassero a causa degli strepiti del tizio.
Si rivide la scena, come se non fossero trascorsi due anni da quel fatto increscioso, ma due minuti.
Il tizio gli riapparve, nudo, prono, sul suo divano del soggiorno.
La sua incredibile erezione, mentre lo guardava, inerme, da dietro (fu la sua prima vittima di sesso maschile, ma, non essendo omosessuale, ad eccitarlo non era stata la sua nudità, ma il senso di potere che stava sperimentando), gli riapparve.
L'iniezione di atropina, che lo stese, ma non abbastanza.
L'espressione assurda che il tizio assunse (si chiamava Daniele, ma era meglio oggettificarlo) quando, tra grida di terrore, tremori, borbottii e fiumane di bava si rese conto di quanto gli stava per accadere, gli riapparve.
L'espressione ancora più assurda - in bilico tra lo stupore, l'afflizione per essere stato tradito e l'assoluto terrore - che il tizio assunse quando gli sparò la sintoeroina sotto l'ascella sinistra, gli riapparve.
L'overdose oscena che ne seguì, che gli fece capire che un tarantolato urlante che grida sconnesso sul divano di casa tua può essere un grosso, enorme problema, gli tornò alla mente, e lì cominciò a provare di nuovo quel terrore increscioso che l'aveva quasi sopraffatto alla festa.
Quello che dovette fare da quel momento in poi per bloccare il tizio invece aveva i contorni sfocati, molli ed indistinti degli stati ipnagogici.
Una forma di autodifesa del suo cervello, probabilmente, anche perché tutto perdeva sostanza e contorno da quando aveva preso l'ascia da sotto il divano.
Scosse la testa, respirò per diversi secondi, come se stesse facendo una sorta di training autogeno. Con l'abilità che gli era tipica, riuscì a mettere da parte i pensieri degli ultimi minuti.
Tornò nella stanza da letto infastidito dall'idea di dovere proseguire nella farsa del corteggiamento, ma con l'attitudine di chi debba fare il proprio dovere.
Nel frattempo, Dorotea aveva scelto, anche se in maniera involontaria ed inconsapevole, d'accorciare i tempi d'Asmodeo, denudandosi.
"E adesso dove cazzo la nascondo la siringa?", rifletté incarognito. Decise così che non si sarebbe spogliato: "È probabile", pensò, "che l'idea di farsi ingroppare con me vestito non le spiaccia per nulla", e, così dicendosi, aprì unicamente la patta dei pantaloni. Estrasse l'organo dai boxer e lo avvicinò con violenza alle labbra di Dorotea, la quale, ciò malgrado, si mise a lavorarglielo con una foga tale che considerò: "Quasi-quasi non le faccio nulla... Anzi, le regalo un bel presente per ringraziarla dell'eccezionale pompino in cui sta adoperandosi..."
Stava per raggiungere l'orgasmo, quando provò un tremendo dejà vu. La paura che questo gli fece lo spinse a ritrarsi dalla bocca di Dorotea, che in quel momento gli fece pensare ad un aspirapolvere impazzito. Si contemplò stupito il glande: era rosso e puntinato a causa del gran succhiare della ragazza. "Alla faccia delle succhiacazzi!", pensò, e questo lo fece ridere compiaciuto. Cercò di tranquillizzarsi: aveva letto che i dejà vu non erano altro che particolari combinazioni d'ormoni che si riproducevano uguali a sé stesse; nondimeno, non riuscì a smettere di provare un terrore abnorme, misto ad angoscia e ad un innaturale senso di incombenza.
Si rammentò di un discorso che una volta fecero lui e Jesus, suo amico di vecchia data, il quale, chissà come e chissà perché, manifestò d'avere, circa i dejà-vu, la sua stessa paura: "Quelle schifo d'esperienze mi spaventano", gli disse serissimo, "perché mi fanno temere che l'Inferno sia rivivere la stessa vita all'infinito, come in un loop concepito da un Dio sadico e vendicativo".
A distoglierlo dai cattivi pensieri fu il culone di Dorotea, che, chissà perché, gli ricordò la forma di un calice.
Le girò dietro e vi s'immerse con rabbia, e con rabbia ancora maggiore iniziò a stantuffare.
Di nuovo prossimo all'orgasmo, questa volta decise che si sarebbe lasciato andare.
Mentre il suo pisellone continuava a spruzzare come una pompa messa in mano ad un vigile del fuoco troppo solerte, estrasse la siringa automatica dai pantaloni, che ancora aveva indosso. Selezionò con un fulmineo movimento l'opzione d'inoculazione rapida e sollevò i capelli di Dorotea con atteggiamento dolce e premuroso. Le tastò il collo con mani da chirurgo, le prese i capelli con forza, appoggiò la siringa sulla giugulare e fece fuoco. Dorotea sollevò la testa dal truogolo del piacere con un movimento fulmineo e nel contempo strinse le chiappe in uno spasmo incontrollato.
Asmodeo cacciò un urlo, poiché le era ancora tra le gambe e, nel timore di rimanere per sempre incastrato nel culo d'una cicciona, iniziò a darle pugni sui fianchi e sulla schiena, nel frattempo gridando: "Mollami, cazzo, MOLLAMI! ". Per quanto freneticamente si agitasse, la stretta di Dorotea era micidiale, e, proprio mentre pensava di stare per fare la fine del fuco, lei si contorse con eccezionale rapidità e, anche se ormai in pratica incosciente, gli sferrò un tremendo pugno sul torace.
Il colpo fu d'una violenza tale che Asmodeo prese il volo e quasi gli si strappò il membro.
Terminato che ebbe di imitare Mr. Lindbergh, mormorò annaspando: "Mi ha colpito il fottuto Mjiolnir...Ahhh... Mi ha colpito il fottuto martello di Thor... Merdamerdamerda... Non respiro più, porca troia..."
Dorotea si voltò, col cervello ormai semi-obliterato, e ciò che vide ed udì le fece perdere del tutto l'equilibrio: un serpeggiare incessante e veloce, un pulsare continuo di squame, una testa di toro, una testa di capra, un'orrenda testa di vecchio e voci urlanti e bestiali che si sovrapponevano tra loro, in un modo strisciante e tremendo, come metallo che stride e si sfascia...
E poi gridò, come e peggio di una Banshee.
Non solo stava per strappargli l'uccello, gridava pure da sfondargli le orecchie, la vacca, pensò allibito Asmodeo.
Fu il constatare d'aver rischiato di perdere cazzo e vita che gli fece perdere la testa.
In tanti anni di onorata carriera non aveva (quasi) mai subito alcun danno, e, adesso, quest'avventura stava per trasformarlo in un cazzo di eunuco morto.
Gli venne in mente la pistola sonica che aveva comprato da uno spacciatore di tecnologie illegali, completamente indifferente allo sfacelo che avrebbe prodotto se l'avesse usata su una testa umana.
Frattanto, Dorotea sembrava stare rimirando qualcosa di parecchio succulento, poiché sbavava copiosamente. Osservarla in quello stato lo fece incazzare ancora di più. Fuori di controllo, non più lucido di un pazzo da manicomio, si mise a frugare isterico in tutti i nascondigli in cui occultava la propria strumentazione da psicotico.
Il pugno ricevuto l'aveva fatto tanto incazzare che non riusciva a ragionare in maniera coerente (per la verità, non ci provava nemmeno, anche perché un bisbiglio nel cranio continuava a ripetergli: "MistavogiocandolapannocchiaMistavogiocandolapannocchia...").
Trovò la sonic pistol in un anfratto ove doveva averla imboscata in preda ad un attacco di paranoia ed emise un'esclamazione di trionfo. Iniziò a premere il grilletto appena dopo aver varcato la soglia della sala da letto, senza curarsi di mirare. Il fascio d'onde soniche concentrate che la pistola emetteva fece vibrare il suo campo visivo, producendo quelle stesse ondulazioni che crea il sole sull'asfalto in una giornata d'estate particolarmente caliente.
Dopo alcuni secondi, il rumore acuto che la pistola generava iniziò ad assordarlo: più per questo motivo che per la devastazione che stava procurando alla propria alcova (notò, con stupore costernato, lo stucco veneziano che si sollevava e accartocciava in lamine sottili come carta carbone), corresse la mira.
Raggiunto che ebbe la testa di Dorotea, si spaventò per quanto stava facendo: come cazzo aveva fatto a perdere il controllo in quella maniera? Si stava distruggendo la camera da letto!
In ogni caso, era troppo tardi: la capigliatura bluastra di Dorotea s'era disfatta per le tremende vibrazioni generate dal gingillo che aveva fra le mani, e, di lì a poco, il di lei cranio sarebbe esploso...
... E, infatti, esplose.
Per un attimo non vide altro che una nuvola rossa e, quando il sangue nebulizzato ch'era nell'aria iniziò a depositarsi, poté contemplare il risultato del proprio sgangherato attacco di follia.
Tre quarti della testa di Dorotea s'erano dissolti.
Ne era rimasto unicamente la parte laterale destra e la mandibola. Il bordo frastagliato del mozzicone di cranio che stava fissando con meraviglia gli fece venire in mente una zona costiera particolarmente accidentata.
Proprio mentre la sua testa iniziò a farsi leggera come un palloncino, pensò: "Cazzo! Gli occhi!", incurante del fatto che, basandosi il sistema d'identificazione degli sportelli bancari automatici anche sull'impronta vocale, prima d'accoppare Dorotea avrebbe dovuto altresì registrarne la voce.
Aveva bisogno di soldi, e per prelevare gli serviva un Securmat®; ma per usare un Securmat® o dovevi esserne il proprietario, o dovevi, letteralmente, averne voce e occhi, poiché venivi identificato dalla mappa retinica e dall'impronta vocale.
Ma Dorotea, pensò autenticamente esterrefatto, adesso è senza la sua cazzo di testa...
Si guardò attorno sgomento, poiché solo in quell'istante s'era capacitato davvero del bordello compiuto.
Magari, dato che una telecamera aveva ripreso tutto quanto era avvenuto nel boudoir, con il campionatore che aveva acquistato di recente qualcosa per la voce avrebbe potuto fare, ma per gli occhi...
Vide, adesso realmente vedendo, materia grigia, capelli e pezzi di cranio spiaccicati sui muri e sul soffitto, in una oscena parodia di un Jackson Pollock, ma di globi oculari, neanche l'ombra.
"Porca troia! Porca di quella vacchissima troia!", gridò , "Tutto questo merdaio per niente!"
La sua voce lo scosse profondamente, come se l'esclamazione appena fatta l'avesse pronunciata qualcun altro.
Contemplò la cosa che era stata Dorotea, e iniziò a piangere.
Sarebbe stato un pessimo 29 Giugno.
Fin.
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Scritto da: davide terranova | 20/02/14 a 20:00