Torturatori e Torturati
[Premessa: le locande nel periodo della Russia sovietica non esistevano; da un'amica russo-italiana ho saputo, mentre le sottoponevo la bozza di questo racconto per farmi confermare se in quanto per metà russa lo ritenesse anche solo ammissibile a metà, che esisteva un sistema simile a quello delle nostre tessere annonarie di epoca fascista. La vodka te la bevevi in casa, quindi... Ma vabbè, mi sono preso una sorta di licenza poetica: del resto la mia amica russo-italiana mi ha detto che, pure essendo un racconto molto poco russo, è interessante a prescindere, perché è "come una corda che si srotola poco a poco, fino a darti una frustata in faccia finale", quindi, beh... Che licenza poetica sia!]
- § 1
Come aveva potuto farsi incastrare a quel modo non riusciva a capire.
Era sempre stato scaltro e attento nell’esprimere le proprie opinioni, eppure, si rendeva conto adesso, l’avevano fregato come un idiota.
In sostanza, comprendeva appieno solo ora, non ostante avesse intuito sin da subito con chi aveva realmente a che fare, non s’era trattenuto.
Trattenuto, come, semplicemente, l’istinto di conservazione più basso gli avrebbe dovuto imporre.
Non s’era trattato solo di hybris; il suo ego, enfiato all’estremo dal senso di superiorità indottogli dall’alcool, l’aveva tradito nel più stupido dei modi.
Fosse stato solo orgoglio si sarebbe, in un certo senso, potuto perdonare: era stato invece così malaccorto da sottovalutare la pratica ferocia degli individui in cui s’era imbattuto.
In sostanza, per quanto a tuttora gli bruciasse ammetterlo, era stata stupidità, null’altro.
I membri più brutali del Komitet e dell'esercito avevano come una stimmate che li contraddistingueva, consistente, da un lato, nei vestiti grigi o marroni e dappoco che indossavano, e, dall’altro, in un’aria a cavallo tra il bovino e il killer, quindi non caderne vittima era abbastanza semplice.
Ma quella sera aveva commesso l’errore più grosso della sua vita: aveva bevuto dopo sei mesi di astinenza integrale, finendo ubriaco come il Santo Bevitore.
Con la forza di un pugno allo stomaco dato con cattiveria, gli affiorò alla mente l’immagine della stanza in cui tra poco sarebbe dovuto entrare.
Chissà cosa lo aspettava.
Chissà chi lo aspettava.
Avevano cominciato mostrandogli previamente delle foto. L’intento era quello di mettergli addosso terrore e indurlo a sentirsi pentito e sporco e, per la miseria lurida, c’erano riusciti alla perfezione.
Quello era stato il primo passo.
Solo in quel momento, a distanza di nove mesi, capì come dietro quanto gli era stato fatto ci dovesse essere stato qualcosa di premeditato a livello di scienze del comportamento, psicologico e criminologico. Il fatto che non ci avesse pensato prima era una delle tante e ricorrenti prove del suo rovinato stato mentale. Malgrado ciò, ricordava con cruda e sfregiante definizione ogni momento di quell’incontro: il membro del komitet ed ex Specnaz Oblimov e il suo abito stazzonato e sporco, la sedia lurida in pelle che se ne stava andando a pezzi su cui l’avevano sbattuto, la musica imperiosa del Rach 3 che risuonava lontana, il tavolo di fòrmica - autentica - che aveva di fronte, un bancone con incassati una coppia di lavandini in acciaio inox dietro di lui, e, su tutto, ricordava con precisione eidetica le piastrelle.
"Sarà di certo un nome d’arte che si è dato da solo, questo pazzo bastardo", aveva pensato allora. Rammentò di avere dedotto che il suo nome dovesse essere di certo un gioco di parole basato sulla parola latina "oblivio". Si era attribuito il compito di fare scomparire cose e persone: era quasi certo che, malgrado il suo cognome suonasse come evidentemente russo, non lo fosse affatto.
In effetti, quanto fosse stato nel giusto lo avrebbe potuto dedurre di lì a poco.
Le piastrelle che aveva visto nel video, le piastrelle della stanza in cui stava per entrare, ora.
Le piastrelle della stanza in cui stava per entrare erano le stesse piastrelle del video.
Rachmaninov aveva lasciato l’Unione Sovietica nel 1917, e il partito l’aveva di certo inserito nel libro nero degli artisti da aborrire. Aleksej aveva intuito che farne echeggiare le musiche all'interno dei sotterranei del Ministero dell’Informazione dovesse essere una qualche forma di tortura psicologica. Quello, o un funzionario del Ministero aveva deciso, in quel cupo giorno di inverno, di titillarsi le orecchie con ironia tutta da potente comunista, che sa che non solo tutto può pensare, ma che tutto può fare, se è giunto abbastanza in alto nella scala gerarchica del potere.
Continuava a pensare alla muratura della stanza in cui l'avevano indotto a fare la sua scelta e alle strane piastrelle che v’erano applicate sopra.
Una stanza come molte altre all'interno di quella struttura, ma quella in particolare era inconfondibile per via di come veniva ripristinata dopo ogni trattamento, aveva poi imparato lui stesso. La scelta di riportare al suo lindore l'intero ambiente con un abbondante utilizzo di detergenti e disinfettanti rispondeva all'esigenza di attribuirgli un'atmosfera indecifrabile.
Quelle belle, rammentò preciso, linde ed esagonali piastrelle bianche e quell'odore di ospedale servivano a fare apparire quella stanza come una sala operatoria.
‘‘Scommetto che sa perché abbiamo scelto il bianco e gli esagoni, vero compagno?’’, aveva detto Oblimov.
A quel punto, era da mezz’ora che gli stava parlando, quasi incessantemente, chiamandolo con astio deliberato compagno.
Ed era da mezz’ora che gli stava mostrando materiale video in betamax dal contenuto così aberrante da farlo dubitare di essere ancora sano di mente. Ricordò di avere dedotto che il fortissimo odore di disinfettante non lasciava auspicare nulla di buono.
‘‘Credo di sì’’, aveva risposto cercando di non fare emergere il panico che stava per sommergerlo.
Si doveva controllare.
Ma era dura, davvero, e, ogni tanto, delle crisi di tremito l’aggredivano all’improvviso, e lui gli si abbandonava appena Oblimov gli dava le spalle. Se non avesse ceduto, per qualche secondo almeno, come un parkinsoniano che abbia accantonato ogni speranza di cura e controllo, sarebbe stato peggio.
Aveva pensato che se il suo corpo non avesse assecondato le sue paure avrebbe finito col disfarsi in un unico e gigantesco spasmo di dolore, contemporaneamente defecandosi ed orinandosi addosso, detonando come una bomba atomica di merda e orina.
Il pensiero lo fece sorridere qualche secondo, e, per sua fortuna, si dissolse appena prima che Oblimov si voltasse per tornare a lui.
‘‘È una questione di filosofia, attitudine, e, perché no, Gestalt, non crede?’’, aveva ribadito Oblimov.
‘‘Se lo dice lei deve essere sicuramente vero...’’, aveva detto con involontario sarcasmo. Il cambiamento di espressione del funzionario, si stava rendendo conto a posteriori, sarebbe dovuto essere un palese segnale di allarme, ma sul momento non aveva colto. In effetti, aveva fatto un altro enorme errore, forse il secondo nella classifica dei suoi errori più grandi in quella fatidica giornata, ma sul momento il quadro della situazione gli sfuggiva ancora.
E sì, sapeva, in quanto estimatore dell'Optical Art, che la Psicologia della Gestalt dovesse c'entrare, ma ammetterlo sarebbe stato decisamente stupido. Palesare il suo spirito filoccidentale era stato deleterio in situazioni ben meno pericolose di quella, dunque tacque.
Sperava ancora di potersene andare sulle sue gambe, pertanto non avrebbe dato ulteriori spunti a quella bestia.
Ma, in realtà, non che quello che aveva detto importasse davvero: giorni dopo aveva compreso che in quei momenti Oblimov stesse solo cercando un pretesto, e il suo tono di voce era stato un pretesto più che sufficiente.
Gli stava camminando a un metro di distanza e, di fatto, era sembrato non esserci soluzione di continuità tra il suo passeggiare tranquillo e il movimento col quale si era infilato una mano sotto la giacca, aveva estratto il randello telescopico, aveva dato un leggero colpetto col quale questo si era esteso e lo aveva colpito poco sopra le labbra, rompendogli due incisivi.
‘‘Io lo dicevo: lei è peggio di una checca di occidentale’’, aveva detto qualche istante dopo, viola e congestionato in volto.
La sua era un'arte: sapeva fare incazzare a morte le persone, consapevolmente o meno.
Pensò che rendersene conto mentre i frantumi dei suoi incisivi gli giravano in bocca e la sua coscienza si stava ottenebrando fosse un pessimo esempio di tempismo e ridacchiò.
Quel che il suo aguzzino aveva appena pronunciato sembrò provenire da distanze siderali.
La stanza prese a turbinare ad una velocità tale che Aleksej non poté fare a meno di pensare con abbandono che forse tutto si sarebbe risolto in uno sconclusionato e confortante maelström di suoni, odori, impressioni visive e tattili.
‘‘So cosa sta pensando, Aleksej: non lo faccia, non si lasci andare o la massacro. A mani nude, si intende’’, aveva detto con tono ferale Oblimov.
‘‘Si intende’’, aveva risposto Aleksej, e aveva spuntato un bolo di sangue e frammenti di denti sul tavolo.
‘‘Sorvolerò sul fatto che mi ha schizzato di sangue giacca e scheggie dei suoi denti, camicia e cravatta, Aleksej, solo perché dalla sua scheda ho capito che ha un’avversione patologica verso il dolore fisico... Da checca occidentale, appunto... Ma lei non mi sente, Aleksej...’’, aveva asserito Oblimov.
‘‘Nononono, compagno Oblimov, giuro sulla patria che la sento eccome! Mi ha appena sfasciato un labbro e rotto due denti, è da mezz’ora che mi parla dei modi che si è inventato per infliggere dolore e mi mostra torture, non può pretendere che sia vispo come uno scolaretto al primo giorno di scuola, non trova?’’, aveva risposto Aleksej, cedendo nuovamente alla sua innata capacità di fare incazzare le persone.
Maledetto pazzo bastardo, aveva pensato un'altra volta.
Il senso di sfida e superiorità l’avrebbe probabilmente distrutto, ma era anche l'unica cosa cui si poteva appigliare per non crollare e mettersi ad implorare come un niunia.
E, come sarebbe stato facilmente prevedibile, gli arrivò un’altra randellata, ancor più fulminea della precedente. Non senti nulla, fino a che non vide che la seconda falange del suo mignolo destro era in frantumi così piccoli che il suo dito in quel punto si era appiattito.
Un dolore abbacinante quasi annientò la sua autoconsapevolezza, ma non gridò.
Scovando energie che non sapeva neanche di avere - era vero, cazzo, assolutamente vero, non sopportava il dolore fisico - si tirò dritto a sedere e trasse un respiro profondo.
Ricordava di avere compreso, in quel momento, che per quanto lo riguardava, un ottimo deterrente contro la sofferenza implicata dalla tortura fisica fosse la sofferenza stessa: quel bastardo, lo aveva capito (anzi, se l’era sentito nel suo intimo animale e presciente), lo avrebbe maciullato, se avesse fatto tanto di sfotterlo di nuovo, o se si fosse permesso di fare qualcosa di assolutamente inappropriato, come urlare, ad esempio.
‘‘Ora ha tutta la mia attenzione, mi creda; e, davvero, non farò più dell’ironia fino a che non mi sentirò autorizzato a farla’’, era riuscito a biascicare Aleksej.
- § 2
Pensava all’ironia, l’unica sua compagna nei momenti di disperazione.
Ma ad affliggerlo, in quel momento, era un altro e ben più peso tipo di ironia: l’Ironia della Sorte.
Solo una sorte ironica e beffarda avrebbe potuto tirargli un tiro così mancino.
Con una fatica immane, e raggiungendo un risultato che lui per primo riteneva inarrivabile, era riuscito a tenere l’alcool lontano da sé per sei mesi.
I primi giorni erano stati terribili, e il delirium tremens l’aveva tanto sfiancato che temeva che la sindrome di Korsakov se lo sarebbe infine preso per sfinimento.
Una delle allucinazioni più tipiche indotte dal delirium tremens consisteva nel vedersi strisciare addosso insetti, con preferenza, per quanto lo riguardava, di uno degli insetti che più gli procurava repulsione: lo scarafaggio.
Dopo due giorni di astinenza si era reso conto che poteva accadere di peggio. Al terzo giorno non se li era visti solo camminare addosso: lo strazio fisico e il disordine mentale erano giunti ad un punto tale che, ogni volta che respirava, aveva l'impressione che un mare di schifose, piccole e brulicanti blatte nere gli entrasse dentro, per poi uscire ad ogni espirazione.
Un’allucinazione siffatta non poteva che esitare nella pazzia; a sottrarlo dall'impazzimento era, invece, intervenuto un provvido e salvifico malore, conseguito ad una crisi di vomito di diversi minuti.
Salvato da un collasso.
Era buffo, ma buffo in modo doloroso e disperante.
Erano state le avvisaglie di cambiamento epocale che aveva sentito nell'aria a far franare i suoi intendimenti di persona sana. Il regime sarebbe caduto, lo dicevano tutti, al più nell'arco di sei mesi.
Da sei mesi non beveva, al più in sei mesi il regime sarebbe caduto: se quella non era sincronicità, un segno manifesto del destino, cos'altro lo era?
E, così, era andato alla locanda in cui s’era sfondato di vodka per quindici anni, da funzionario comunista con problemi d'alcool ad alcolista che si fingeva funzionario comunista, con l’intento, aveva detto e ripetuto a sé stesso, di bere solo un bicchierino.
Un solo, insignificante, innocuo piccolo bicchiere.
Al primo sorso per poco non aveva rimesso cena, spuntino di mezzo pomeriggio, pranzo e colazione; al secondo un familiare tepore gli aveva scaldato la gola e accarezzato lo stomaco; al terzo ed ultimo un’esplosione nel basso ventre gli aveva fatto inturgidire il pene con un tale violenza che era dovuto andare in bagno a scaricarsi.
Che esperienza appagante!
Comprendeva che una reazione come quella non potesse essere una normale reazione fisiologica e che quel turgore non fosse stato altro che un modo per la sua psiche di alcolista cronico di esprimere gratitudine; tuttavia, non poteva importargliene di meno.
E, così, se ne era fatto un altro.
A distanza di pochi minuti il torpore euforico che gli prendeva quando era brillo aveva cominciato a bussargli sulle pareti interne del cranio.
La nausea era sparita del tutto, e, come sempre gli accadeva al secondo bicchiere, una voragine gli si era aperta nel basso ventre, facendoli pensare che, se non avesse ingollato qualcosa di solido, il suo stesso stomaco se lo sarebbe digerito. No, si disse, la metafora non era abbastanza adeguata: se non avesse mangiato qualcosa sarebbe collassato su sé stesso come un buco nero.
Forse l'abitudine russa di propinare la vodka come aperitivo non significava millantare.
Ma, come altre volte in quello stato mentale, a cui stordimento voleva aggiungere solo altro stordimento, non mangiò nulla; al contrario, passò al terzo bicchiere, e, dopo pochi minuti, dal terzo al quarto.
Un ronzìo soddisfacente, unito alla sensazione di avere il cervello che funzionava come un calcolatore impazzito in grado di elaborare all’istante centinaia di informazioni, gli aveva dato infine conferma di essere davvero ubriaco.
Era paradossale, ma l'alcool non gli era mai piaciuto davvero, e, in realtà, gli erano sufficienti pochi bicchieri per decollare come un missile, ma questo non gli aveva impedito di ingollarne quantità tali che gli avevano procurato una tale sindrome astinenziale che, ai primi tempi, per come si era manifestata, lo aveva terrorizzato, perché gli era sembrata uno dei primi sintomi dell'Alzheimer.
Invece, si era dimostrata una comune, per quanto devastante, astinenza da alcool.
Si guardò attorno, in quel cesso di bettola dove solo chi aveva la tessera del partito poteva entrare, e provò esaltazione. Il solo fatto di non fare più parte del Partito ed averne ancora la tessera lo faceva sentire astuto come una volpe. E, ormai, sentiva le rotelle all’interno del suo cranio frullare ad una velocità prossima a quella della luce. Da un lato, quindi, c'era il sentore di potere cogliere tutto quello che voleva circa la sua persona, quello che aveva attorno a sé, la patria, la storia del mondo, gli angeli del Paradiso e i demoni dell’Inferno e dio stesso in tempi infinitesimali, dall’altro era travolto una potente forma di ottundimento mentale, che gli rendeva tutto quanto lo circondava estremamente affascinante e degno di essere goduto.
In effetti, a dominare su tutto vi era un’euforia folle e smodata...
Forse fu questo, o forse fu il suo essere un intellettuale vanitoso che lo fece diventare imprudente.
Alticcio, instabile e con le gambe molli aveva deciso di avvicinarsi al bancone, sedersi su uno sgabello in mezzo alla gente e parlare.
Non solo parlare, in verità: voleva fare partecipi gli altri della sua consapevolezza e della sua felicità.
E, così, s’era seduto accanto ad un capannello di quelli che, rintronato com'era, gli erano parsi, di primo acchito, dei russi tipici.
‘‘La rovina del mondo sono gli ebrei; la Glasnost ha portato ad una degenerazione dei quadri del PCUS quasi incontrovertibile... E noi che cosa stiamo a fare? Stiamo a guardare?’’, aveva detto quello che poi avrebbe saputo essere Oblimov.
Era un uomo dall'aspetto così contraddittorio (incoerente, aveva pensato Aleksej) da sembrare impossibile: alto un metro e novanta, ma malgrado ciò, tozzo e pressato su sé stesso, come se un dio lo avesse preso a martellate sul cranio e questo gli si fosse rincagnato tra le spalle; con un viso granitico e fiero, ma dagli occhi acquosi; con delle mani gigantesche, dalle dita spesse, robuste e callose, ma con le unghie curate.
E, particolare che lo contraddistingueva più di tutti, vestito con una trascuratezza e un’indolenza che potevano essere solo da funzionario comunista ortodosso o da graduato militare di alto livello.
‘‘Ve lo dico io: ‘La Soluzione Finale’ ci avrebbe liberato da un’enorme quantità di mali’’, aveva insistito l’uomo.
Lui e un suo simile (‘‘Un suo clone del cazzo’’, aveva pensato Aleksej), l’avevano guardato, del tutto indifferenti.
‘‘Ha ragione, compagno... L’aberrazione ebrea rischia di contaminarci tutti. Se non poniamo un freno all'espansionismo capitalistico sionista americano, verrà un giorno in cui persino per le strade di Mosca imperverseranno droga e prostituzione’’, aveva detto di rimando un ometto alto un metro e cinquanta, tutto occhiali e orecchie.
Era talmente basso che non l’aveva notato fino a che non l’aveva sentito parlare.
L’aveva guardato e, per un attimo, aveva pensato che gli fosse familiare.
Ma si doveva stare sbagliando, forse quell'ometto gli ricordava vagamente qualcuno con cui aveva avuto a che fare anni e anni addietro, ma, ne era certo, non aveva mai visto prima quell'individuo. L'alcool gli aveva portato via molto, e importanti parti della sua memoria su tutto, ma in un certo e malato senso Aleksej ne godeva, perché, nel suo tentativo di mantenersi integro all’interno del regime comunista troppo aveva subito.
L'ometto non aveva ricambiato con indifferenza che lui si sarebbe aspettato, anzi, era sembrato studiarlo criticamente e aspettarsi una sua reazione, ma continuò a sembrargli estraneo.
‘‘Non pensate di potere fottermi a questo modo, merdosi farneticanti’’, aveva detto in un bisbiglio Aleksej, e, subito dopo, aveva sussultato: allucinante, non aveva pensato, ma parlato.
‘‘Ecco’’, aveva considerato avvampando suo malgrado, ‘‘forse uno dei primi sintomi di istupidimento definitivo è proprio questo: pensare parlando, senza capacitarsene’’.
Aveva cercato così di estraniarsi bevendo il suo quinto bicchiere, che nemmeno rammentava di aver chiesto.
Ma l’avevano incastrato, perché, avendo in sé molto dello psicologo, dell'etologo e del comportamentista, quei discorsi, benché pericolosi, lo attiravano come una falena sarebbe stata attratta dal fuoco.
‘‘Il bue era o è uno del Gruppo Alpha, o peggio, uno Specnaz, come il suo compare gemello’’, aveva pensato Aleksej guardandoli di sottecchi senza rendersene conto.
L’élite del potere militare sovietico.
Sily spetsial’nogo naznacheniia.
Inevitabile quindi che facesse sparate come quella, pensò.
Soldati specializzati in contro-terrorismo, sabotaggi, operazioni ad alto rischio, in grado, si diceva, di usare ogni arma da fuoco, ogni mezzo di terra e d'aria, manipolare esplosivi, esperti in telecomunicazioni, allenati ad agire sotto una pressione fortissima, dopo un lavaggio del cervello come quello cui venivano sottoposti in Accademia, durante l’addestramento, era inevitabile che maturassero convinzioni esagerate e distorte.
Non era un segreto cosa fosse stato fatto a coloro che avevano rifiutato di eliminare Amin e l’intero suo entourage in Afghanistan nel dicembre del ‘79, nell’assalto al palazzo presidenziale di Kabul.
Gli ‘‘operatori’’ dissidenti, al ritorno in patria, erano stati scuoiati.
Se era sempre stato o era divenuto un membro del KGB, quelle asserzioni dovevano avere per lui il carattere del dogma.
E l’omuncolo, invece?
Trasudava malignità e astuzia con una forza tale da dare l’impressione di avere attorno a sé un’aura tangibile.
Nel suo unico - e lungo - viaggio in America aveva sperimentato più volte l’LSD e ciò che ricordava con maggior nitore era il senso di empatia che aveva provato durante i diversi trip che si era fatto, come li chiamavano i locali.
Le esperienze che aveva vissuto erano stata tanto travolgenti che, in più occasioni, gli era parso di sentire i pensieri di Helen, la bellissima americana con la quale era stato nove mesi, durante quella che sarebbe dovuta essere una missione di avvicinamento agli intellettuali di sinistra americani e si era risolta nella vacanza più lunga e divertente della sua vita.
E, forse, li aveva sentiti davvero, ma la sua parte razionale aveva sempre rigettato quella possibilità e le implicazioni che sembrava comportare.
In quel momento aveva provato qualcosa di estremamente simile: non sentiva i pensieri dell'omuncolo, ma ciò che esso provava, facilitato dal fatto che ciò che esso stavo provando sembrava colpirlo con la forza di onde d'urto materiali, e non solo: in quei momenti si era sentito come se delle affilate e penetranti dita mentali gli avessero frugato nel cervello e rimestato tra i suoi pensieri, con cattiva noncuranza.
A rendere la sensazione ancora più disturbante v’era il fatto che l’uomo non dismetteva quella sua aria familiare.
Ma non poteva essere: nessuno poteva guardare nella mente di nessun altro. E lui non conosceva quel maledetto gnomo, ne era certo.
‘‘Uno dei sintomi più evidenti della Sindrome di Korsakov è l’affabulazione, mio caro Aleksej, non la paranoia’’, aveva pensato poco convinto.
Sempre più era andato persuadendosi che quello fosse un teatrino allestito ad uso e consumo dei pochi presenti, nella speranza che un qualche stolto di dissenziente avesse detto la sua.
Se quei maledetti erano a caccia, l’agnello sacrificale non sarebbe stato di certo lui, aveva pensato.
Il senso di gioia e condivisione che prima aveva provato era, pertanto, morto malamente e, in quel momento, era intervenuta la cupa consapevolezza di sempre: quella di vivere in un paese che, nel tentativo di non alienarsi dal lavoro, aveva finito con l’alienarsi da sé.
Dio, se quello schifo fosse finito l’indomani!
Aveva sentito che l’angoscia che aveva avvelenato gli ultimi quindici anni della sua vita sarebbe svaporata come trementina al sole.
‘‘Cosa ne pensa, lei, del nemico ebreo?’’, aveva infine esordito il piccoletto.
‘‘Se già qualifichi come ‘nemici’ gli ebrei, come vuoi che ti risponda?’’, aveva pensato Aleksej, ma era riuscito a tacere, ignorandolo. Forse l’avrebbero lasciato in pace, forse sarebbe riuscito ad andarsene senza clamore, però avrebbe dovuto farlo senza indugio. Si era alzato, in silenzio, guardandosi le scarpe e cercando di assumere un’aria dimessa e idiota.
‘‘Magari se mi scambiano per un mentecatto mi lasciano andare’’, aveva pensato Aleksej.
‘‘Signor Eisenstein, non finga di non avermi sentito; so benissimo chi è lei: 145 di Q.I. rilevato nel 1974, un idealista puro, giovane promessa dell’Intellighenzia del partito... Nonché mio alunno per tre anni’’, aveva detto l’uomo tutto occhiali.
‘‘Come dice, scusi?’’, aveva risposto inorridito Aleksej.
‘‘Peccato che poi sia franato su sé stesso... Quant’è che si vive addosso, Aleksej?’’, l’aveva incalzato il piccoletto.
Per un attimo ricordò di avere sentito con violenza quasi fisica la vena psicopatica dell’uomo, e di averne avuto paura.
‘‘Senta, non so di cosa sta parlando...’’, aveva detto timidamente Aleksej sempre più consapevole che qualcosa nella sua mente si doveva essere rotto, dal momento che non capiva, nel modo più assoluto, il senso di quanto l’uomo stesse dicendo.
E, in aggiunta alla sua confusione, se la stava, alla lettera, per fare addosso.
L'omuncolo e i suoi sodali pensavano davvero quello che avevano detto?
Erano stati davvero sinceri? O la loro discussione, come aveva immaginato, era solo uno specchietto per le allodole?
Perché poi se la prendessero con gli ebrei proprio Aleksej non riusciva a capire.
L’accanimento distruttivo che caratterizzava i loro discorsi avrebbe dato da pensare a qualsiasi mente sana che quegli uomini altro non cercassero che un capro espiatorio…
E lui ci stava finendo in mezzo. Non si potevano proclamare quelle vaccate sul Jet Set internazionale ebraico e crederci davvero. Quale cazzo di Jet Set, poi? L'ebraismo capitalista e la fine del comunismo non avevano alcun nesso, e perfino l'ultimo degli idioti al Politburo l'avrebbe saputo. Come che fosse, cercavano zimbelli da gogna, o, peggio, carne da macello.
Erano ancorati ad una realtà che andava morendo, dissolvendosi, ma non solo non riuscivano ad accettarlo, avrebbero fatto anche quanti più danni gli fosse stato dato di fare prima di essere cancellati dalla storia, in un modo o nell'altro.
E Aleksej aveva l'impressione di essere finito nell'occhio del maledetto ciclone, come avrebbe detto Helen.
- § 3
‘‘Aleksej, davvero non mi riconosce? Non ricorda chi le ha insegnato l’Arte della Politica?’’, aveva detto l’uomo.
Dzugasvili!
Incredibile, quello che aveva davanti era il Professor Vasilij Fedorovich Dzugasvili!
Quindi lo conosceva, eccome, se lo conosceva! Sì preoccupò della compromissione grave della sua memoria, ma la sensazione durò poco.
Dzugasvili era senza ombra di dubbio la persona più malvagia, disturbata e potente che avesse mai conosciuto, e quando si rese conto di chi in effetti avesse davanti, inorridì.
‘‘Professore’’ per modo di dire, visto che, in realtà, non insegnava in scuola o accademia pubblica.
Ma era davvero lui: il maestro di dottrina socialista e comunista, colui che era stato il suo insegnante di arte retorica, colui che avrebbe dovuto allevare il fior fiore del PCUS!
Il suo maestro!
Il piccolo baro bastardo che spacciava per propria la terminologia inventata da Orwell in ‘‘1984’’, e che lui come libro non conosceva e non avrebbe mai conosciuto, se non fosse stato per Helen.
"Diamine, se era cambiato", pensò, e poco c'era mancato che erompesse in una pericolosissima risata.
In primo luogo, s’era accorciato.
In secondo luogo, le orecchie e il naso gli si erano ingranditi oltremisura, trasformandolo in una sorta di piccolo e orrendo goblin, a malapena riconoscibile, rispetto al piccolo napoleone che era stato.
Avesse avuto la mente lucida, l'avrebbe di certo riconosciuto, ma erano anni che viveva nella nebbia.
In breve, aveva concluso in quei momenti, per non aver riconosciuto il Professore, si doveva essere bevuto il cervello assieme agli ettolitri di vodka che si era trincato. Gli anni di alcolismo che aveva vissuto stavo pretendendo un prezzo che non sarebbe potuto essere più equo, a ben guardare.
‘‘Allora’’, aveva detto Vasilij Fedorovich accarezzandolo con affabilità solo esteriore Aleksej sulla spalla sinistra, ‘‘che cosa l’ha corrotta di più? La sua missione in America o le sue letture? O, forse, le persone che gliele hanno procurate?’’
Gli era mancato il fiato: da un lato per lo shock dei ricordi, e dall'altro per quello che Vasilij Fedorovich aveva appena detto.
Ogni suo dubbio, ogni sua paranoia più oscura aveva avuto conferma in quel momento: lo stavano spiando, e da quando aveva abbandonato le fila del partito.
‘‘Devo andare via, mi lasci andare, non so di che parla’’, aveva ribattuto Aleksej, parlando in modo così sommesso e veloce che probabilmente nessuno dei presenti doveva averlo compreso.
I due uomini nerboruti si erano alzati di scatto.
‘‘Cosa pensa un ex-membro del Politburo della degenerazione indotta dall’International Set ebraico?’’, aveva insistito assurdamente uno di loro.
Ricordò con precisione che in quel frangente il tempo era sembrato dilatarsi. Ancora quelle assurdità sull'ebraismo sionista e capitalista.
‘‘Questi uomini non sono unicamente maniacali... Sono maniacali in un modo nuovo, cazzo, sono maniacali di una pazzia fine a sé stessa... È il loro modo di essere e di fare. Non si capacitano dei danni che hanno provocato e che provocano ancora. Si credono depositari delle ultime verità. Loro sono nel giusto, e il resto del mondo sbaglia, tout court; non vedono alternative e non le vogliono vedere. Accusare gli ebrei del crollo sovietico è pura contingenza, non c’è una ragione valida e precisa, e loro lo sanno. Lo sanno alla perfezione, e io so il vero motivo di questo modo di pensare: vogliono essere gli attori principali in questa grande commedia che è La Storia. Questa è la loro fondamentale pazzia: i loro ego si sono espansi psicoticamente, e non hanno più la benché minima capacità di distinguere male e bene. Ma non solo non sanno distinguere il Male dal Bene in senso ontologico, non ne sono in grado perfino al più elementare dei livelli.’’, aveva pensato in pochi secondi di iperattività cerebrale Aleksej.
‘‘E io ci sono finito in mezzo’’, non era riuscito a trattenersi dal dire, proprio mentre la sua essenza ritornava al tempo reale normale.
‘‘Aleksej, quasi intuisco i suoi processi di pensiero! Non è cambiato per niente! Il suo difetto principale è sempre stato la trasparenza eccessiva’’, aveva detto Vasilij Fedorovich gongolante, ridacchiando e, cazzo, orrore, sbavando dal lato sinistro della bocca.
Sbavava, quella merda d'uomo stava sbavando, dandogli netto il sentore del suo folle compiacimento e della pericolosità della situazione in cui si era andato a cacciare.
La rabbia lo sopraffece in modo così repentino che gli mancò il respiro.
‘‘Lasciatemi andare, cazzo. Lasciatemi andare. Ho amicizie molto in alto: lasciatemi andare, altrimenti provocherò la vostra rovina. Anzi, ho trovato i vostri discorsi tanto deliranti che ho deciso che vi rovinerò in ogni caso’’, aveva detto Aleksej d’un fiato, ma stava tremando.
Si era avviato verso la porta, senza verificare la reazione dei suoi interlocutori: la sbronza l’aveva reso ardito.
Non solo ardito, in realtà, si era sentito trionfante: era vero, conosceva una persona al Politburo che avrebbe potuto proteggerlo, ma sarebbe dovuto essere veloce. Forse non avrebbe potuto farli finire in un gulag in Siberia a pulire culi, ma di certo avrebbe potuto creare loro problemi. Retrocessioni di carriera, boicottaggi di interi settori del Ministero, annullamento di missioni: questo avrebbe potuto ottenere.
Ricordava di avere pensato che un porco telefono sarebbe stato la sua salvezza e la loro rovina...
Stava attraversando la strada, quando una macchina lo investì, proiettandolo a diversi metri dal punto di impatto e facendo colare giù per le sue gambe il senso di trionfo che aveva appena provato.
Si era toccato guardingo: salvo il fatto che era bagnato di orina, non sembrava esserci niente altro di spezzato o guasto.
Che colpo di fortuna!
Ma si era pisciato addosso! Reso vendicativo dalla sbronza e ardito dal senso di trionfo provato poco prima, invece, come avrebbe dovuto, di fuggire il più lontano possibile da quella situazione e da quella torma di pazzoidi, stava per mettersi ad insultare il suo investitore, quando l’aveva visto in volto: era uno dei due uomini dall'aspetto incoerente e brutale, che stava ghignando con espressione ebete ma inequivocabilmente malvagia. Con un’agilità che Aleksej aveva pensato essere iniqua (‘‘Come ha fatto ad essere così veloce?!’’, avrebbe pensato poco dopo), era sceso dall'auto, e lo aveva colpito in fronte con un manganello anti-sommossa, senza nemmeno dargli il tempo di protestare o gridare alcunché.
Non aveva perso i sensi del tutto, quindi aveva sentito chiaramente i suoi stessi talloni strisciare sull'asfalto mentre veniva trascinato. Semi-svenuto, aveva cercato di opporre resistenza, ma, si rendeva conto ora, quella fu la scelta peggiore che in quel frangente avesse potuto fare: almeno, se fosse rimasto inerte, non sarebbe più stato percosso, invece tentando di resistere era riuscito a guadagnarsi una gragnuola di randellate sulla fronte.
E, poi, ricordava, fu il nero.
- § 4
Non appena aveva ripreso coscienza era stato trasferito di peso nella stanza delle piastrelle bianche.
E sbattuto, con violenza eccessiva perfino per quel contesto, su una sedia in pelle lurida e consunta. Per fortuna, almeno, la sedia era senza ruote: di mettersi a rimbalzare sui muri come una palla da flipper, lui, che in America li aveva odiati, non aveva nessuna voglia.
Sul tavolo v’erano delle foto che lo ritraevano, indegnamente ubriaco.
Una di queste era significativa in modo particolare: lo avevano fotografato sdraiato accanto ad una fontana, in un parco, tra la neve, scarmigliato e sudicio.
Con la testa in una pozza di vomito semi-congelata.
S’era guardato, ed aveva sperato che quel rigurgito fosse suo.
Un’altra lo ritraeva mentre, di notte, coi pantaloni calati a mezzo, orinava in piena Piazza Rossa, sul Lobnoe Mesto.
A guardarsi in quello stato, a compiere quelle azioni, si era accartocciato su sé stesso, e una nausea fosca e lattiginosa quasi l’aveva fatto svenire.
La cosa più orribile era che non ricordava nulla.
Niente di niente.
Era stato il periodo delle sbronze da annientamento, almeno quello lo ricordava: mai come in quella fase della sua vita aveva desiderato morire.
Alla vergogna che gli provocava vedersi in quelle foto s’aggiungeva il fatto che aveva i pantaloni bagnati d’orina ed era... Scalzo. Era scalzo, notò con incredulità. Doveva avere perso le scarpe mentre veniva trascinato.
Era stato portato nel Ministero dell’Informazione.
Lo aveva capito dall'odore di cancelleria.
E lo aveva capito dal fatto che, quella in cui era, a guardarsi attorno, doveva essere una stanza delle torture.
In quel momento entrò il Professor Dzugasvili.
‘‘Pisciare sul Lobnoe Mesto, Aleksej... Strano, non è da lei. La sapevo rispettoso dei morti, ricordo male?’’, aveva detto il Professore.
Aveva tossito, sembrando in imbarazzo, ma non poteva essere: non era il tipo di persona che finisse vittima di imbarazzi di sorta.
"I polmoni. Una polmonite da cui non riesco a guarire", gli disse in tono ambiguo.
Un individuo del genere avrebbe ucciso chi gli avesse dimostrato pietà, quindi non ribatté.
Eppure, sembrava, dalla mimica corporea, volesse suscitare in lui pena, e ciò non aveva alcun nesso con l'uomo che rammentava.
Durante la ‘‘formazione’’, ricordava, si diceva che avesse subito due interventi chirurgici molto particolari: uno per evitare di arrossire a sproposito, l’altro per impedire alla sudorazione di fluire incontrollata. Lo scopo, avevano immaginato all'epoca lui e Liova, lo studente migliore del loro gruppo di 25 persone, doveva essere quello di rendersi inintelligibile, tanto ai suoi sodali o servi quanto ai suoi avversari.
Che la sua mente si fosse compromessa?
Impossibile capirlo, quindi non aveva risposto alla domanda.
Inoltre, si vergognava.
Per quanto non avrebbe voluto né dovuto, provava vergogna.
Gli bastava pensare alle innumerevoli sbronze intervenute da quando aveva lasciato ufficialmente il PCUS e alle indegne puttanate che doveva avere commesso per sentirsi una merda.
La legge delle probabilità lavorava a suo sfavore: s’era ubriacato centinaia di volte e, davanti a sé, in quel momento, non aveva che una manciata di foto che rappresentavano un tipico campionario delle sue serate. Chissà quali altri abomini aveva commesso prima degli ultimi sei mesi di sobrietà! Ma, forse...
‘‘Non faccia l’errore di pensare che le sue partite a scacchi con Liova possano salvarla, Aleksej... Ah, i vostri discorsi! Voi, così illuminati, così progressisti! E noi, così...Così... Non riesco nemmeno a trovare un’espressione confacente... Così inferiori!’’, aveva gridato il Professore con voce isterica.
Era salito di tono sull'ultima parte della sua esclamazione, e aveva accompagnato tutto il suo parlare con un teatrale insieme di gesti. Il volto invece era rimasto imperturbabile, provocandogli una sensazione oltremodo alienante.
‘‘È colpa sua, lo sa Aleksej?’’, aveva detto il Professore con tono assente, poi aveva riso, del tutto incongruamente.
Era sempre stato un individuo caratteriale, ma la vecchiezza l’aveva trasformato in una macchietta.
Dietro un atteggiamento così umorale era facile che ci fosse l’arteriosclerosi o una forma di demenza senile.
Aleksej aveva pregato che non fosse così: era pericoloso da sano, pertanto non osava pensare di cosa potesse essere capace ora che sembrava essere divenuto uno psicopatico privo di inibizioni.
Il potere assoluto corrompeva in modo assoluto, e il Professore era sempre stato una dimostrazione vivente di quell'asserzione; ora che pareva ammattito del tutto, più che mai.
Il gioco d’azzardo era un’altra delle passioni di Aleksej, quindi comprese con immediatezza di dover tentare il tutto per tutto.
‘‘Cosa, Vasilij Fedorovich, di cosa mi sono reso colpevole, se non di idiozia e di arroganza?’’, aveva detto Aleksej, cercando di controllarsi il più possibile. Non era stato legato, ma questo non significava niente. Una delle quattro pareti della stanza in cui si trovava era un enorme specchio, dietro il quale, se l’era immaginato, ci doveva essere una batteria di picchiatori e torturatori, muniti dei più impensabili strumenti di lavoro,quindi era meglio che non facesse movimenti inconsulti o si arrabbiasse troppo.
‘‘Liova è morto, e non lo ucciderà un AK-47, lo ha ucciso lei. Ci ha obbligati a farlo, con le sue minacce’’, aveva detto il Professore.
‘‘Minacce? Senta, ero ubriaco come uno straccio, davvero, non sapevo cosa stavo dicendo’’, aveva ribattuto Aleksej.
‘‘No che lo sapeva, e se Oblimov non l’avesse fermata non oso pensare quali danni avrebbe provocato! Quello schifoso invertito di Petrov è come un cancro... Merita comunque di essere estirpato! Ma lei, Aleksej, lei era il mio migliore alunno... Per lei ho in serbo qualcosa di diverso... ‘Perché io so fare meglio ciò che più aborro!’ Conosce questa citazione?’’, aveva detto allegro e strofinandosi le mani Dzugasvili. Aveva sorriso con un tale laido trasporto che le palle di Aleksej quasi gli salirono in gola.
Non conosceva la citazione e non aveva capito cosa intendesse con quel discorso, ma aveva intuito che dalla piega che stavano prendendo gli eventi non ne sarebbe potuto arrivarne nulla di buono.
L’avrebbero voluto spingere a fare qualcosa di ignobile?
E cosa speravano di fare con Liova?
Il loro era un rapporto di rispetto reciproco e complicità politica, ma di certo non poteva parlarsi di affetto...
Se mai Liova avesse procurato nocumento a quei bastardi, lo avrebbe fatto per puro piacere personale più che per fargli un favore.
E avrebbe potuto ostacolarli, ma non annientarli.
L’amicizia, nel loro rapporto, c’entrava poco.
Liova era ancora parte attiva di un sistema dal quale Aleksej s’era voluto esulare anni addietro, anche se stava cercando, nei limiti del suo potere, di minarlo dall’interno. Aleksej invece aveva mollato per ribrezzo nei confronti del partito, ma, soprattutto, della vita.
Ma evidentemente a quei maledetti non serviva che un pretesto.
E lui glielo aveva fornito, bello e impacchettato.
‘‘Vedo perplessità nei suoi occhi, Aleksej. È talmente corrotto e istupidito da non rendersi conto che Liova è l’unica persona che le si può dire amica?’’, aveva detto sprezzante il Professore.
‘‘Il rapporto tra me e Liova non è di amicizia, mi creda, lasciatelo fuori... E, di nuovo, mi creda, Vasilij Fedorovich, il mio era un vaneggiamento gratuito, indotto dall'alcool’’, aveva detto esibendo l’atteggiamento di sincerità esterrefatta che tanto sapeva piacere a Dzugasvili. Il Professore lo fulminò con lo sguardo.
Era stato in quel momento che aveva cominciato a sentirsi in colpa verso Liova.
E a sentire non solo paura, ma un terrore così potente da parergli metafisico.
‘‘Mi creda, Aleksej, lei non ha fatto altro che dare la stura ad una situazione già compromessa. Per usare una metafora, è come se avesse spinto la prima pedina di un domino. Quella che provoca l’effetto a catena... Ma questo è accaduto anni fa. Liova è morto, e lei ne è responsabile; il suo credo nel Partito è morto, e lei ne è responsabile... Tutto nella sua vita sta rovinando da anni, non è quanto è accaduto ieri ad averla portata qui. Ma voglio darle un’opportunità. Il compagno Oblimov le farà capire quali saranno i vantaggi e i benefici di una nostra futura collaborazione... Così come le conseguenze di un suo rifiuto’’, aveva detto, ora calmo, il Professore.
La porta s’era aperta e Oblimov era entrato. Il professore, invece uscì, come un teatrante che, al momento, avesse esaurito la sua parte.
Era chiaro che il suo colloquio col Professore era stato ascoltato da almeno un’altra delle persone presenti alla locanda.
Se li vedeva, dietro quella maledetta parete a vetri, a studiare le sue reazioni e a scommettere sul suo crollo.
‘‘Questa sarà la prima e l’ultima lezione che io le farò. Sa di cosa parleremo, vero Aleksej?’’, aveva detto Oblimov.
‘‘No, non ne ho idea’’, aveva risposto Aleksej, cercando di mantenere un tono neutro, ma, di fatto, ciancicando una frase che forse nessuno a parte lui stesso aveva capito.
‘‘Le parlerò, supportato dalla tecnologia jap betamax, di come si possa procurare dolore. Lei sa perché, vero?’’, aveva detto sorridendo storto Oblimov.
‘‘No, e nemmeno lo immagino’’, aveva replicato Aleksej, sempre gorgogliando.
La lingua gli si attaccava al palato con una forza tale che parlare era quasi impossibile.
E non era vero che non avesse intuito nulla: non si voleva immaginare nulla.
‘‘Le farò capire come mai, in questo palazzo, sono divenuto famoso come sinonimo di sofferenza inutile e gratuita... Sa chi mi ha dato gli spunti migliori? I condannati a morte. Ho potuto definire dei nuovi protocolli, grazie a loro. Si può dire che siano morti per un bene supremo’’, aveva detto in un sussurro Oblimov.
‘‘Ma, davvero, non capisco cosa vogliate... Non conto niente, non sono nessuno, non capisco il vostro... (accanimento, stava per dire accanimento, ma questo avrebbe significato sofferenza, se lo sentiva)... Insistere... Davvero, non capisco dove andremo a parare’’, aveva detto Aleksej, stranamente, riuscendo ad essere chiaro.
‘‘Per quanto mi riguarda, l’avrei uccisa e basta. Ma in modo pulito, mi creda. In un certo senso, mi è simpatico. Comunque, la questione è molto semplice... Vantaggi derivanti dal lavorare per noi: rimanere in vita; svantaggi derivanti dal rifiutare: morire agonizzando’’, aveva ripreso a dire Oblimov mentre si accingeva, assieme a due inservienti che nel frattempo erano entrati, a predisporre un monitor e il relativo videoregistratore.
‘‘Inizierò con il descriverle i metodi di tortura tradizionali. I sudamericani sono degli autentici maestri in questo. Abbiamo appreso moltissimo da loro. Desaparecidos, sa? Allora, cominciamo con questo: il ‘Pau de Arara’: consiste nell’appendere il soggetto a testa in giù, infilarle un pezzo di legno cavo nel retto e dargli fuoco. L’ ‘Affogato’: si blocca un uomo, sdraiato, su una panca, gli si lega un asciugamano in testa, gli si caccia un imbuto in bocca e gli si versa acqua dentro, a più riprese, d’acqua; la sensazione di affogamento è micidiale, dicono. La ‘Tinozza’: si riempie un barile di merda, umana o animale, e si infila la testa del soggetto nel barile stesso; su questo metodo, non aggiungo altro: si commenta da sé, non trova, Aleksej? La ‘Manicure’: si strappano le unghie del soggetto, delle mani preferibilmente, con delle tenaglie...’’, aveva detto Oblimov, e poi si era fermato a studiare le reazioni di Aleksej.
Il quale, a quel punto, ricordava di doversi essere sbiancato come un cadavere.
Aveva quasi sentito il sangue precipitare verso il basso: inevitabile quindi che dovesse essersi scolorito.
Oblimov aveva continuato a parlare, e, mentre snocciolava quelli che per lui erano i metodi ‘‘tradizionali’’ di tortura, aveva inserito un nastro nel videoregistratore.
‘‘Quello che sta per vedere è uno dei metodi che ho inventato io...’’, aveva detto Oblimov con orgoglio ostentato.
Era strategia psicologica di distruzione, lo aveva capito, nondimeno non era riuscito a trattenersi dal sorridere.
Mai come in quell'attimo quella merda di Oblimov gli era parso uno straccione di mugik.
Niente mai l’avrebbe riscattato, non c’era da fare nulla: né abiti più puliti, né un contesto diverso da quello in cui si trovava.
Sembrava un contadino agghindato per la fiera di paese, ad esser precisi.
Mentre pensava questo Oblimov l’aveva trascinato, senza farlo alzare dalla sedia, di fronte allo schermo.
Nel frattempo, il nastro era partito.
Un uomo, legato ad una sedia dallo schienale alto, fatto apposta, si capiva, per impedire movimenti incontrollati della testa.
Oblimov, vestito con i pantaloni e la giacca che aveva addosso pure in quel momento (quindi non era materiale vecchio), con in mano un banale coltello da tappezziere.
L’uomo che gridava, tremava, sputava e piangeva.
E imprecava in inglese.
Oblimov che gli si avvicinava ed iniziava ad incidergli la faccia, appena sotto la cute, lungo le orecchie, lungo il mento...
E, l’uomo che si dibatteva pazzamente, non ostante fosse legato, con questo, si capiva, facendo ancora di più incazzare Oblimov, che non riusciva a portare a termine il suo lavoro.
Oblimov che estraeva dalla tasca della sua orrenda giacca una siringa enorme, e la conficcava malamente nel collo dell’uomo.
L’uomo che sussultava e sbavava.
Oblimov che portava a termine l’opera, strappando del tutto la faccia all'americano.
Aleksej aveva pensato che dovesse essere per forza una finzione: per questo non aveva vomitato.
‘‘Guardi, ora viene il meglio. Consideri che qui c’è un’interruzione, dovuta al lavoro di pulitura che ho dovuto effettuare’’, aveva detto Oblimov, scaraventandolo nella realtà in cui era.
Dunque era tutto vero, per la cazzo di madre patria...
Oblimov, che si avvicinava all'uomo, con nella mano destra, quella che, di primo acchito, pareva una pelle di daino, nella sinistra un mazzuolo e in bocca una fila di chiodi.
L’uomo (col volto scarnificato) che, in preda allo shock, stava tremando come una foglia.
Oblimov che gli faceva un’altra iniezione.
‘‘Lì gli ho iniettato un potente rilassante muscolare, usato di regola come anti-spastico’’, l’aveva ragguagliato Oblimov.
L’uomo, che smetteva di tremare, ma si orinava addosso.
Oblimov, che gli inchiodava, a rovescio, quella che era la sua stessa faccia, sul cranio.
Lasciandogli, di certo apposta, la possibilità di vedere, con un occhio, attraverso l’orifizio di quella che era stata la sua bocca.
‘‘Non sa il caos che ha fatto quando è tornato in sé’’, aveva detto Oblimov.
Le piastrelle, bianche ed esagonali, che risaltavano di un lucore fastidioso a causa forse di un difetto di lettura della testina del videoregistratore, erano tutte schizzate di sangue.
Quando da lontano aveva sentito arrivargli alle orecchie dei frammenti del Rach 3, a volume basso ma perfettamente udibile, aveva pensato di essere impazzito.
- § 5
‘‘Non farà più dell’ironia ‘fino a quando non si sentirà autorizzato a farla’? L’ho detto che lei mi è simpatico’’, aveva risposto beffardo Oblimov alla sua affermazione.
‘‘Si, ho capito cosa volete farmi diventare... Ma se avete letto la mia scheda saprete anche che non ho l’indole necessaria per...Per...’’ aveva cercato di dire agitandosi sulla sedia Aleksej.
‘‘Ha capito? È sicuro? In ogni modo, mi spiace, ma sono costretto a legarla alla sedia. Lo capisce, Aleksej?’’, aveva risposto interrompendolo Oblimov.
E così aveva fatto.
‘‘Senta, non c’è bisogno di legarmi... Io...’’, aveva cercato di dire Aleksej, ma invece di emettere dei suoni intelligibili, aveva, di fatto, latrato.
‘‘Non si giri’’, aveva detto interrompendolo di nuovo Oblimov, lasciandogli libero il braccio sinistro. Perché lo stavano legando in quel modo assurdo?
‘‘Cosa? Aspetti, cosa fate, cosa fate...?’’, aveva ribattuto Aleksej.
‘‘Vedrà, è una questione di pochi minuti... E mi sa che no, non ha affatto capito, non vogliamo una spia collaborazionista... Ne abbiamo fin troppe, di quelle merde’’, aveva detto Oblimov.
Aveva sentito un tramestio alle sue spalle, ma prima che avesse potuto rendersi conto di che cosa stava per accadergli, gli era stata fatta un’iniezione sul bicipite sinistro.
Aveva gridato senza contegno.
‘‘Non mi sento più il...’’, aveva cercato di dire Aleksej, ma ormai stava mormorando.
‘‘Il braccio sinistro, fino alla spalla, vero? Anestetico locale. Non cerchi di girarsi, la prego’’, aveva insistito Oblimov.
‘‘Senta, ma cosa diavolo...?’’, aveva cercato ancora di dire Aleksej, ma gli era uscito di bocca solo un altro gorgoglìo mezzo incomprensibile, e, contro ogni sua volontà consapevole (lo sapeva che era meglio non voltarsi, e che se l’avesse fatto ci avrebbe perso di certo), aveva cercato di girarsi. Si chiedeva come potessero capire cosa stesse blaterando. Soprattutto a causa del panico (anche se l’anestetico ci aveva messo del suo), nell'ultimo quarto d’ora dopo il video, la maggior parte dei suoni che aveva emesso gli era uscita di bocca come se fosse stato il farfuglio di una persona dalla parlata gravemente blesa. O dalla bocca piena di sugna. ''Magari fanno dei corsi per capire cosa cerca di dire un uomo drogato sotto tortura'', pensò assurdamente.
‘‘Eh no, che non si deve voltare!’’, aveva esclamato Oblimov con tono ridanciano, e, per dare un volitivo conforto al suo ordine, aveva preso la testa di Aleksej fra le mani.
‘‘Dio, che mani calde’’, aveva pensato Aleksej.
Era strano, ma le palme asciutte, calde, indurite e gigantesche di Oblimov, gli avevano dato conforto, facendolo, per un attimo, sentire al sicuro e protetto.
A ben guardare, con quelle tenaglie di carne, aveva pensato subito dopo Aleksej, se solo Oblimov avesse voluto avrebbe potuto spiccargli la testa dal collo. Con la stessa facilità con la quale avrebbe strappato un’ala da un pollo arrosto.
‘‘Non si deve girare, compagno Aleksej. Lei è un idealista, un puro di cuore, e abbiamo capito che, non ostante il suo odio per il dolore fisico, non si sarebbe mai piegato. ‘Non lo spezzerete facilmente’: mi creda, sono le esatte parole che ha usato Vasilij Fedorovich’’, aveva detto Oblimov.
Era stato in quel momento che Aleksej aveva sentito il primo leggero strattone.
‘‘Io, dal canto mio, no n sarei arrivato a questo. Ho visto migliaia di torture, come le ho già detto, e, lo sa, lo ha verificato coi suoi stessi occhi, ho perfino inventato dei sistemi che adesso fanno parte dei nostri protocolli. Non ho né l’inclinazione né la voglia di convincerla. Io, e qui mi sto ripetendo di nuovo, mi sarei limitato ad ucciderla, con un pulito colpo in testa. Pertanto, se ho accettato di fare questo, è perché, in conformità alle aspettative di Vasilij Fedorovich, desidero che accetti di lavorare per noi senza la minima esitazione. Senza nemmeno la speranza di resistere. Mi comprende Aleksej?’’, aveva detto Oblimov con un ghigno ebete e malato in volto.
‘‘Ma io non ho l’indole necessaria a fare quello che mi chiedete... Non potrei mai...’’, aveva risposto Aleksej, sempre parlando come se gli avessero intasato deliberatamente le fauci di sugna.
In quel momento aveva cominciato a piangere a dirotto.
‘‘Pianga pure, se vuole’’, aveva detto Oblimov.
‘‘Scorrete lacrime, disse il poliziotto’’, aveva pensato (o detto) di riflesso Aleksej, senza sapere perché.
Pensare senza filo logico a quel modo era un brutto segno, lo sapeva, glielo avevano insegnato anni di esperienze dolorose, ma non era riuscito a farci nulla.
La vista gli si era ormai così appannata che non distingueva più i lineamenti di Oblimov.
Il quale, a quel punto, gli era arrivato tanto vicino che poteva sentirne l’alito.
Alito che sapeva, sic et simpliciter, di merda di vacca.
Di aliti cattivi Aleksej in vita sua ne aveva sentiti tanti (specie perché l’abuso di vodka distruggeva stomaci e fegati), ma, di aromatizzati al letame, mai.
Fu quel pensiero, unito allo stordimento che gli aveva procurato l’anestetico da cavalli che gli avevano somministrato, che lo aveva spinto a ridacchiare rumoreggiante.
Aveva sentito un altro strattone, questa volta più forte.
‘‘Allora, Aleksej, cosa le dice l’espressione ‘Specnaz’?’’, aveva chiesto Oblimov in tono neutro.
Era strano, aveva pensato, ma la sua risata non aveva provocato reazione alcuna nel suo torturatore.
‘‘La prego, Oblimov... Chiunque in Russia sa cosa voglia dire...’’, aveva risposto Aleksej piangendo.
‘‘Può essere... Io, tuttavia, insisto: mi dica cosa vuol dire’’, l’aveva incalzato Oblimov.
‘‘È un acrostico: sta per ‘Forze Operative Speciali’’’, aveva detto Aleksej scivolando brutalmente sulle “s”. Gli stava colando il naso, come sarebbe colato ad un bambino durante un pianto disperato.
‘‘Bene, e cosa fanno?’’, aveva continuato con tono didascalico Oblimov, guardandolo indifferente.
‘‘Sono commando’’, era riuscito a mormorare Aleksej.
‘‘Vero. Commando. Il corpo allena uomini che possano sopravvivere, sempre e comunque. In fondo, la morte in missione significa il fallimento’’, aveva detto pigramente Oblimov.
Aleksej ricordò di essere arrivato, di nuovo, ad un pelo dall'orinarsi addosso.
Comprendeva che una lezione sull'ovvio come quella non potesse che essere foriera di catastrofi, quindi, come aveva potuto sperare di uscirne sano?
Per la madrepatria, era da un’ora che era nel Ministero e già ci aveva perso un dito, gli avevano spaccato un labbro e rotto due denti: cos'altro lo aspettava?
Una sola cosa gli era rimasta, e ad essa aveva un bisogno disperato di ancorarsi per non naufragare del tutto: sperare di uscirne mentalmente integro.
‘‘Senta, ho capito, però...’’, aveva detto Aleksej, ma aveva dovuto interrompersi, poiché la pressione delle mani-tenaglia di Oblimov era aumentata oltremodo. Aleksej aveva pensato che, se avesse insistito ancora un po’, la testa gli si sarebbe schiantata come un melone marcio.
‘‘Con la fine della Guerra Fredda è arrivata un’era di cooperazione’’, aveva detto, ormai evidentemente partito per la tangente del proprio discorso, Oblimov.
Una parte di Aleksej avrebbe voluto ignorare la follia di quanto stava avvenendo, ma era troppo acuto per non intuire cosa stesse capitando.
Se Oblimov aveva preso ad esprimersi a quel modo, di tutto doveva trattarsi tranne che di un vaniloquio fine a sé stesso.
Quelle asserzioni avevano la potenza del sillogismo, se lo sentiva.
Alle premesse ‘‘A’’ e ‘‘B’’ sarebbe di certo, e presto, conseguita la conclusione ‘‘C’’...
Cristo, gli Spetsnaz sapevano essere dei tali macellai...
‘‘Un’unità Specnaz venne invitata ad un’esercitazione dalle forze speciali N.A.T.O., in Finlandia. Ma una terribile tempesta la sorprese, e così restò tagliata fuori dal resto della squadra. Con la solita condiscendenza, i militari N.A.T.O. credevano di avere molto da insegnarci. Loro pensavano in termini di metodi... Quando, in realtà, è una questione di filosofia. E di attitudine, le dicevo prima. C’erano quaranta gradi sotto zero. L’unità - erano sei uomini, tra cui me ed un'altra persona che già conosce - incappò in una giovane coppia bloccata nel suo rifugio di montagna. In otto, avevamo viveri, anche razionando, per una decina di giorni, massimo due settimane ancora. La tempesta durò tre settimane e mezzo. "La tempesta del secolo", la definirono i giornali finlandesi, esagerando come sempre fanno i giornali. Noi russi siamo abituati a ben altro, vero? Specie chi ha ascendenze siberiane, come lei. Ah, naturalmente, non violentammo la donna. Lasciamo fuori il sesso dal nostro lavoro. Contamina le menti, mi creda. In ogni caso, ora si può girare’’, aveva detto Oblimov.
Aveva pronunciato l’ultima frase ridendo, e aveva spinto con brutalità di lato la testa di Aleksej, nel caso questi avesse tentennato nel voltarsi e rendendo superflua la sua autorizzazione.
Aleksej aveva cercato di guardare, ma avendo gli occhi inondati di lacrime, non era riuscito a distinguere molto.
Aveva visto solo un’esagerata sovrabbondanza di rosso.
Chiuse gli occhi, respirò a fondo, li riaprì.
Sangue, aveva capito subito, c’era sangue dappertutto, pure sui muri (sulle piastrelle) e una copia di Oblimov (il suo clone del cazzo), stava tenendo fra le mani il suo braccio, impugnandolo alla stregua di un grossa, golosa e sanguinolenta bistecca.
E stava ridendo, il bastardo malato stava ridendo.
Aveva brandelli di carne attorno alla bocca, e, gli parve in quel momento, i denti molati a punta. Denti che, santa merda, erano inzaccherati di pezzi della sua persona e del suo sangue.
La testa di Aleksej aveva cominciato ad andare all'indietro: malgrado l’assoluta mancanza di dolore, stava cadendo in deliquio.
Una sberla di potenza inaudita e terribile, appioppatagli sulla nuca da Oblimov, lo riportò in uno stato di quasi-consapevolezza.
Aveva guardato di nuovo il cannibale, e, perdìo, non aveva più occhi.
Al loro posto, delle voragini dentute, copie perfette delle sue stesse fauci, con annessi pezzi di materia e sangue.
‘‘Allora, compagno Aleksej, vero che adesso lavorerà per noi?’’, avevano detto gli occhi-bocca dello Specnaz, e subito dopo avevo riso sguaiatamente.
Pazzesco, aveva pensato Aleksej, aveva parlato con la bocca e con gli occhi.
E la voce, l’aveva sentito chiaramente, gli era arrivata in perfetta stereofonia.
A quel punto, svenire nuovamente fu inevitabile.
Tuttavia, ricordava d’avere perso i sensi lentamente, con un sorriso da drogato beato sulle labbra: mentre sprofondava in quel mare nero da cui era uscito dopo ore, era riuscito a pensare che, se anche Oblimov lo avesse percosso come un tamburo, non avrebbe sentito nulla.
Almeno in quello, l’aveva fottuto.
- § 6
S’era svegliato - presumibilmente due o tre giorni dopo - in una stanza che pareva di ospedale, con il braccio diligentemente fasciato.
Avevano fatto un ottimo lavoro.
Non appena aveva sentito odore di cancelleria aveva capito di essere ancora nella merda.
L’avevano solamente spostato ad un altro piano, ma era sicuro come la morte che era ancora nel Ministero dell’Informazione.
Paradossalmente, non provava alcun dolore.
Aveva guardato la flebo che gli pendeva sulla testa, ed aveva capito perché: sul fianco del sacchetto appeso alla gruccia c’era il nome di un potente farmaco a base d’oppio.
Se l’erano sgranocchiato.
Gnam-gnam.
Solo il pensarlo gli faceva mancare le forze.
E a quello s’aggiungeva il fatto che era cotto come una pigna.
Cazzo, col Fentanyl in gas ci ammazzavano la gente...
Se il danno era esteso al tessuto muscolare poteva di certo salutare la funzionalità del suo braccio.
Non aveva possibilità alcuna di fuggire, lo sapeva.
Se anche dietro la porta di quella stanza non ci fosse stato un piantone, da lì ad uscire in strada ce ne passava così tanto che ogni tentativo sarebbe stato risibile.
Senza riuscire a controllarsi minimamente, in quell'istante aveva cominciato a piangere: gli era tornato in mente di avere sperato che almeno l’equilibrio mentale gli sarebbe rimasto, e, invece, a considerare come si sentiva, pareva gli avessero portato via pure quello.
Ogni volta che avesse pensato al nastro, a Oblimov, al suo gemello, al suo povero fottuto braccio...
Cosa ne sarebbe stato di lui?
Proprio in quel momento Vasilij Fedorovich fece la sua entrée, da perfetto uomo di teatro in quale pareva essersi trasformato.
‘‘Cosa le ha mostrato Oblimov?’’, aveva detto senza preambolo alcuno.
Aleksej non aveva risposto.
Gliene erano mancate le forze.
‘‘Il video in cui inchioda in fronte all'americano il suo stesso volto o quello in cui al suo compagno di squadra ed ex-migliore amico gli stacca sempre la faccia e poi gliela infila, arrotolato su un bastone, nel retto?’’, aveva detto tutto d’un fiato Vasilij Fedorovich. Era evidente che si stava cavando di bocca ciò che diceva, così, senza curiosità né astio, riuscendo ad ostentare un interesse dall'apparenza meramente accademica.
Aleksej ebbe un conato di vomito, ma non rigurgitò nulla, anche perché doveva essere digiuno da almeno quarantotto ore.
Chiunque altro sarebbe parso un pervertito, Herr Professor (come lo chiamavano ai tempi della formazione lui e qualche altro temerario studente) in quel momento, invece, sembrava solo stanco.
Era evidente che ormai sapeva di avere già vinto, quindi l'esibizione di atteggiamenti che potessero esprimere soddisfazione non doveva interessargli (almeno, come era tipico del suo carattere, non più).
‘‘Il primo che ha detto’’, aveva detto Aleksej cercando di ricomporsi.
‘‘Ha capito, vero, cosa vogliamo da lei, Aleksej? E, soprattutto, ha capito cosa abbiamo deciso di lei, vero?’’, aveva detto Vasilij Fedorovich.
‘‘Credo di sì. Volete che lavori per voi. Volete distruggermi pezzo-pezzo, rovinandomi da dentro’’, aveva risposto Aleksej.
‘‘È così. Non avrei potuto dire di meglio. Guarisca. Avrà capito che la lasceremo andare a casa, ma sarà sorvegliato sempre. Tenuto sotto controllo sotto ogni aspetto. Se farà tanto di fuggire, o parlare di noi a qualcuno - Ah, a proposito! Liova è morto come il cane che è sempre stato - non ci limiteremo ad ammazzarla. La tortureremo per anni. Due o tre di seguito, fino a che il cervello non le diverrà una brodaglia inutile, capisce?’’, aveva chiesto Vasilij Fedorovich.
Aleksej non aveva detto nulla.
Liova, dunque, era morto, e a causa sua.
Aveva compreso benissimo.
- § 7
Erano ormai nove mesi che lavorava per il Ministero dell’Informazione. Il mondo stava cambiando, ma il Ministero dell'Informazione no. Anzi, si era attribuito il ruolo dell'ultima roccaforte comunista sul suolo russo, e dal momento che era un ente non ufficiale e nascosto ma dotato di risorse immani, se mai fosse stato travolto dal "disgelo", sarebbero occorsi anni.
Il braccio l’aveva conservato per miracolo, ma gli si era smagrito in modo orrendo, malgrado gli interventi di chirurgia ricostruttiva cui era stato sottoposto. Gli incisivi erano stati sostituiti da due impianti. Il mignolo invece gli era stato amputato dalla falange prossimale in su, dal momento che quella intermedia gli era stata sbriciolata.
Come l’avevano fottuto!
Quei bastardi merdosi, pensò in quel momento.
Con le loro grida, le loro minacce, l’avevano davvero sfiancato!
Non avrebbe avuto alcuna pietà per loro.
Pensavano davvero di poterlo corrompere?
Di fargli cambiare idea, di stancarlo, di svilire la sua rettitudine?
Pensò alla stanza in cui stava per trovarsi.
Perfetta e matematica esemplificazione di occupazione dello spazio: questo erano le celle degli alveari.
Ecco perché al ministero usavano la forma esagonale: perché era una forma ottimizzante e la psicologia della Gestalt insegna che la percezione ha un ruolo fondamentale nella vita.
Ecco dunque perché per le stanze delle torture erano rivestite di piastrelle esagonali: per fare pensare alle api.
Animali operosi.
Animali comunisti.
Guardò attraverso la parete vetrata.
Seduta sulla stessa poltrona che avevano usato con lui, c'era una donna.
Una bellissima donna.
Anche lei avrebbe cercato di dissuaderlo?
Anche lei avrebbe offerto favori sessuali?
Anche lei avrebbe maledetto, imprecato, sputato?
Non gliene poteva fottere di meno.
Oramai aveva capito: la via dell’incorruttibilità gli si era spianata davanti.
Gli prese un prurito al basso ventre: lui non si imponeva preclusioni di sorta circa l’abuso sessuale.
Entrò.
Era davvero bella.
Prima di passare alla faccia se la sarebbe goduta un po’.
Decise, entrando, di cominciare con la sua frase preferita d’esordio, perché, lo sapeva, con una pezda come quella avrebbe avuto un effetto devastante.
E, così, disse: ‘‘Scommetto che sa perché abbiamo scelto il bianco, vero, compagna?’’
FIN.
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